Patagonia: recensione di una storia italiana di libertà

Amore, dipendenza, illusioni, bugie e speranze nel film di Simone Bozzelli al cinema dopo Locarno

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Spazi più sognati che esplorati, due personaggi ricchi di sfaccettature, una storia capace di sfidare su più livelli, l’altro mondo che Simone Bozzelli ha messo nel suo Patagonia – in sala dal 14 settembre, grazie a Vision Distribution – è qualcosa di talmente semplice da non poter non nascondere di più. “Un’illusione di libertà”, come la chiama il regista, o “un gioco di forza e dipendenza” che all’ultimo Festival di Locarno aveva conquistato il Premio Ecumenico delle Chiese riformate e la Chiesa cattolica in Svizzera. Anche per la tensione creatasi tra Andrea Fuorto e Augusto Mario Russi, così diversi e insieme simili a quello che molti vivono nel proprio quotidiano.

 
 

Ragazzi perduti, in Abruzzo

Loro, i due protagonisti. Con Yuri, ragazzo rinchiuso in una vita senza scintille da una zia che lo tratta come un bambino, che trova in Agostino, un girovago già uomo ma con lo spirito di un ragazzino, la spinta ad andarsene e a lasciarsi dietro una gabbia di troppo amore e un noioso paese della costa abruzzese. Reclutato come assistente da ‘Ago’, animatore di feste di compleanno per bambini, sale sul suo camper e inizia una vita nomade. On the Road, tra Agostino e Yuri nasce un rapporto ambiguo fatto di premi e punizioni e la promessa di un viaggio nella terra del fuoco, in Patagonia. Ma prima bisogna lavorare, guadagnare. A lavorare, però, è sempre più Yuri, soprattutto quando Agostino spegne il camper in un villaggio improvvisato dove è sempre festa a suon di techno. Così per Yuri la Patagonia diventa sempre più lontana. E il rapporto con Agostino sempre più claustrofobico, come le pareti di quel camper.

Neverland, tra Teramo e la Patagonia

“Seduttore e un po’ sbruffone, avventuroso e travolgente”, così Bozzelli definisce Peter Pan, esplicitamente evidenziando la connessione tra il protagonista senza tempo del capolavoro di James Matthew Barrie con l’Agostino dell’esordiente Augusto Mario Russi, figura ingombrante, onnipresente, a tratti molesta, intorno al quale tutto ruota e che tutto muove, nel bene e nel male.

Ma c’è di più in questa sorta di ammaliante e ambiguo mangiafuoco che attrae il giovane e – inevitabilmente – innocente “Rapagnetta Yuri” di Andrea Fuorto (L’arminuta, War – La guerra desiderata). I due offrono una prova notevole, in combinata, orchestrati dal regista, che a loro si affida, trascinandoli dalle coste di Silvi Marina (Teramo) e Montesilvano (Pescara) alla Black Rock City de noantri allestita in una cava della Magliana.

Territori che da subito oppongono la loro durezza – e di un dialetto che abbisogna di sottotitoli – al candore spaesato del giovane, per troppo tempo chiuso in una gabbia che lo proteggesse dal mondo, per il quale non sembrava adatto. E con il quale, evidentemente, voleva confrontarsi. A ogni costo. Confusamente, in maniera scomposta, come anche il film mostra, con un andamento diseguale – voluto o meno, poco importa – e una (forse troppo) lunga e ridondante parte centrale.

Amore e dipendenza, Amore è dipendenza

Tutto è però propedeutico a quel che sarà: Per Ago, che con il fuoco tenta di alleggerire il peso dell’esistenza e delle relazioni senza riuscire a liberarsi delle radici che rispuntano nel suo sogno di libertà, per Yuri, che abituato a dipendere da qualcuno e a non essere abbastanza conquista gradualmente la forza di decidere da solo di voler subire anche le punizioni più ingiuste, e per gli spettatori. Che il film sottopone a diverse prove – molestie fisiche e psicologiche comprese – prima di ricompensare con un finale che giustifica le vessazioni, la perdita della speranza, dell’innocenza, il rischio di esser passati dal vivere rinchiusi in una famiglia tradizionale a un camper malmesso. Per una volta, la scuola della strada – e dell’arte di strada – tanto citata a sproposito dal popolo della rete, acquista corpo, e dignità. E offre spunti di riflessione sui concetti di libertà e dipendenza, anche nella fissità esasperata di certe sequenze, nell’accettazione del dolore e del male come reagente o dell’attesa di un Godot che stavolta potremmo essere noi.