I primi della Lista: recensione del film

I primi della Lista recensione film

I primi della Lista è una storia vera. Siamo nel 1970: Renzo Lulli è un liceale di buona famiglia e fa parte del movimento studentesco pisano. Tramite un suo amico, Fabio Gismondi, ottiene un provino con Pino Masi, famoso cantastorie del movimento sessantottino e autore della celebre “Ballata del Pinelli”.

 

Per Lulli è un’occasione da non perdere e prendere al volo nonostante l’imminente esame di maturità. Mentre sta provando a casa del Masi una voce si rincorre: in Italia sta per essere effettuato un golpe militare, come è già avvenuto in Grecia nel 1967. I tre, in preda al panico, prendono la macchina di Lulli, e si dirigono prima verso il confine slavo e poi verso quello austriaco. Bisogna chiedere asilo politico, scappare dall’Italia, perché gli intellettuali, soprattutto i ragazzi iscritti a vari movimenti di sinistra, saranno i primi a essere prelevati dalle case. Nasce così un viaggio verso la salvezza che ha dell’incredibile.

I primi della Lista, il film

I primi della Lista che vede l’esordio dietro la macchina da presa di Roan Johnson  è divertente, surreale, ma soprattutto vera. A raccontarla al regista è il protagonista della vicenda, Renzo Lulli, il ragazzo borghese trascinato , inconsapevolmente, dalla figura paranoica e trascinatrice di Pino Masi. Il cantautore è preoccupato e isterico, vittima del suo stesso vittimismo. I tre, in viaggio da molte ore,  si ritrovano sul loro cammino numerosi convogli militari diretti a Roma.

La paura cresce e il contrasto tra i due gruppi è rappresentato in modo sublime: la goliardia dei soldati si contrappone alla rigidità facciale e ai movimenti composti dei tre fuggiaschi, che finalmente hanno la loro conferma dei proprio sospetti. L’universo in cui è immerso” I primi della lista” è quello che emerge nel dopo ’68. L’Italia è a un bivio e si ritrova da una parte l’ingenuità e i sogni dei giovani studenti e dall’altra il pericolo concreto di una cruenta lotta interna. Ci si ritrova immersi nel periodo appena precedente alla strage di Piazza Fontana; l’aria degli anni sessanta non si è ancora dispersa, è ancora viva e la si percepisce nei sottotesti delle canzoni di lotta, che i tre protagonisti cantano a squarciagola durante la loro fuga.

La macchina da presa di Johnson predilige un taglio intimista. Si concentra sui primi piani dei tre personaggi, incarnati perfettamente dagli esordienti Francesco Turbanti e Paolo Cioni e dall’ormai veterano Claudio Santamaria, raccontando il loro piccolo mondo fatto di convinzioni e isterismi, di scontri ideologici e di strategie militari.

Tre spiriti liberi, forse troppo creduloni, che grazie a questo viaggio, imparano a crescere e ad affrontare la vita, senza nascondersi. Sono emblematici i titoli di coda del film, che mostrano i veri protagonisti oggi (Masi elemosina soldi cantando in strada, Gismondi ha girato il mondo e vende antiquariato esotico nei mercatini italiani e Lulli vive in Marocco dove realizza sculture in legno) rimasti aggrappati a quel sentimento di libertà ed entusiasmo, rifuggendo le convenzioni moderne della società industrializzata e votata al profitto.

Nell’ultima sequenza i tre amici si ritrovano a cantare la canzone “Quello che non ho” di De Andrè, una perfetta chiusura di pellicola, un racconto in musica di quello che accadde dopo quegli anni: la fine di un’era, la delusione di una generazione incantata e piena di speranze disattese. Pellicola spiritosa e scanzonata, un omaggio all’entusiasmo giovanile, uno sguardo disincantato all’Italia che una volta esisteva, un’esperienza anarchica che ci ricorda il bello del nostro paese e della nostra gente.

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