Promised Land: recensione del film di Eugene Jarecki

Promised Land

Fuori concorso all’ultimo festival di Cannes, Promised Land di Eugene Jarecki viene riproposto alla festa del cinema di Roma nella sezione “Tutti ne parlano”. Questa speciale categoria offre l’occasione al pubblico romano di scoprire pellicole risultate rivelazioni in altri importanti festival del cinema.

 

L’ultimo documentario di Jarecki è focalizzato su un interessante parallelismo tra la carriera di Elvis Presley e l’attuale situazione politico-sociale degli Stati Uniti d’America. L’analogia risulta ancora più incisiva visto che le riprese si sono svolte durante il periodo delle elezioni presidenziali del 2016 che hanno visto trionfare, a sorpresa, il candidato repubblicano Donald Trump.

A tal proposito è ironico e amaro vedere, nel corso del film, un convinto Alec Baldwin essere sicuro della disfatta di colui che è poi diventato presidente.

Il pretesto che da via al documentario è un viaggio. Il film è dunque un ibrido tra road-movie e documentario. Protagonista è l’auto originale del re del rock and roll che ripercorre tutti i luoghi che sono stati fondamentali nella vita e nella carriera dell’artista. Dalla città natale Tupelo, in Mississippi, fino a Memphis, New York, Hollywood, Las Vegas e, per ultima, Graceland.

La Rolls Royce del 1963 risplende di luce nuova, non è un cimelio da museo che viene trasferito da città in città ma è un auto che rivive i fasti che l’hanno resa nota. Sui suoi sedili si alternano vari personaggi, molti interlocutori che non solo raccontano il proprio personale rapporto con la figura di Elvis ma analizzano se stessi e il proprio paese.

La filosofia è quella di “abitare” i luoghi della storia non studiarli freddamente. Con interesse seguiamo, ad esempio, Ethan Hawke che ci parla degli anni di Elvis alla Sun Records. In auto si parla, si canta, si suona, ci si emoziona, si viaggia, si dorme e soprattutto si vive. Jarecki non nasconde nemmeno i guasti che la macchina più volte subisce, anzi ne trae spunto per delineare nuove linee di narrazione inaspettate, ne fa tesoro e rende l’imprevisto una possibilità. In tal proposito molto bella e poetica la scena i cui un autostoppista e il suo cane sono gli ospiti d’onore nell’auto trasportata da un carro attrezzi.

Curioso constatare che, tra le varie automobili appartenute ad Elvis, sia stata scelta quella che all’epoca venne ribattezzata “la straniera”, non un’americanissima Cadillac ma un’inglese e snob Rolls Royce. Come se il regista volesse suggerire allo spettatore di analizzare le cose da una certa distanza anche se la sua posizione è ben chiara. La musica, infatti, altra protagonista indiscussa, coinvolge, suggestiona e vanifica i posticci tentativi di neutralità. Il film è incentrato su Elvis ma costringe tutti a riflettere sul momento critico attuale.

Elvis rappresenta il sogno americano che ormai sembra essere sfumato. Un ragazzo di provincia, del profondo sud, che si è eretto a re sul palcoscenico mondiale. Un uomo bianco che non ha avuto paura di mescolare la sua arte con quella dei neri, che ha unito un paese attraverso la sua musica.

Tuttavia, vittima di se stesso, non seppe sostenere il ruolo che la società gli aveva riservato, così come oggi gli Stati Uniti non riescono ad essere più quella “terra promessa” in cui tutti sognano di vivere. È qui infatti che la similitudine si rafforza. Usare un’immagine collettiva come quella di Elvis per sviscerare gli aspetti più reconditi del presente trasforma questo documentario in un’acuta ed attenta analisi politica.

- Pubblicità -