Robin Hood: recensione del film di Ridley Scott

Robin Hood

Pubblicizzato con il redivivo Gladiatore, il Robin Hood di Scott/Crowe arriva in sale lasciando a bocca asciutta tutti coloro che si aspettavano una storia con la stessa epicità ed intensità emotiva. La storia, quella classica del fuorilegge che ruba ai ricchi per dare ai poveri, è leggermente retrodatata, costituendo un ideale incipit alla storia del bandito di Sherwood.

 

Quella di Scott è quindi un’operazione simile a quella che Nolan ha brillantemente portato sullo schermo con Batman Begins, un ritorno alla nascita di una legenda che al cinema abbiamo sempre visto precostituita, vuoi nella versione musicale con Errol Fynn, vuoi in quella patetica ed eroica con Kevin Costner, vuoi ancora con quella demenziale ed esilarante con Cary Elwes (alla regia nientepopodimenoche Sua Signoria della Risata Mel Brooks).

Ci sono tutti i personaggi chiave della vicenda: Riccardo Cuor di Leone, prode condottiero e disincantato realista,;il Principe Giovanni, inetto e qui quasi una macchietta di se stesso; lady Marian, un’elegante dama che qui è stata trasformata in una volitiva e orgogliosa donna che sostiene gli abitanti della sua città, poco più che un riempitivo; lo sceriffo di Nottingham, quasi inconsistente; Little John e Will Scarlett, allegra combriccola di combattenti un po’ rustici; Fra Tuc, corpulento e atipico frate che si schiera dalla parte dei poveri quando tutto il sistema ecclesiastico è da quella dei ricchi. Ci sarebbero quindi tutti gli ingredienti per un bel successone: drama, comedy, romance, thriller, suspense… ma a quanto pare, a Ridley è sfuggito qualcosa.

Se alcuni nodi narrativi sembrano affrettati, come l’espediente iniziale che i crociati utilizzano per ritornare in Inghilterra, o come l’innamoramento (inspiegabile) di Robin e Marian, in altri punti il regista appare restio, quasi prolisso, (vedi le scene di guerra) stentando a far camminare una storia che ha come pecca di fondo una sceneggiatura che affossa il potenziale di una leggenda per famosa e capace di far muovere gli animi (degli spettatori). C’è riuscito Gibson con Braveheart, ma perché Scott ha miseramente fallito con il suo Robin Hood? Quello che viene subito da pensare è la mancanza di una vera e propria motivazione da parte del protagonista. Massimo Meridio, Robin Hood (Costner), William Wallace erano tutti accomunati dalla straziante perdita di persone care, è il sentimento di vendetta in costoro ha potuto attecchire e trasformarsi in qualcosa di più profondo, la lotta per la libertà. Anche se non privo di un certo fascino anarchico che Crowe riesce sempre a dare ai suoi personaggi, il Robin Hood di Scott è mancante di questa componente fondamentale, il coinvolgimento personale diretto, che impedisce anche allo spettatore di addentrarsi nelle vicende dal punto di vista del protagonista.

Ben giocate invece altre carte: molto ben tratteggiati i compagni di viaggio e di lotta di Robin, e altrettanto magnificamente interpretati i personaggi di Max Von Sydow e William Hurt. Ma su tutti un Mark Strong davvero impeccabile nei ruoli da cattivone, un attore che con la sua mimica riesce ad incarnare la malizia e il male, memorabile infatti la sua interpretazione dell’esoterico Lord Blackwood in Sherlock Holmes.  

Nelle scene di battaglia Scott non risparmia per violenza, facendo cavalcare Robin nella mischia della battaglia addirittura con un … martello! Migliore in scena è senza dubbio lo splendido paesaggio inglese, le vallate e i boschi che da sempre fanno da sfondo nell’immaginario collettivo alle vicende di Robin Hood, ma questo, ahimè, non è un merito di Ridley.

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