Le quattro volte – recensione del film di Michelangelo Frammartino

Le quattro volte

In uscita il 28 maggio nelle sale italiane, il film di Michelangelo Frammartino Le quattro volte, ha vinto  premio SACD nella Quinzane des Realizateurs all’ultimo Festival di Cannes.

 

Le quattro volte segue gli ultimi giorni di un pastore calabrese vecchio e malato. Lo vediamo portare al pascolo le capre, o recarsi nella chiesa del paese, dove prende della polvere che a sera beve disciolta nell’acqua e che, secondo una antichissima tradizione calabra, dovrebbe guarirlo.

Alla morte del pastore, il film mostra la nascita di un capretto e i suoi primi mesi di vita. Quando esce per la prima volta al pascolo, rimane isolato rispetto al gregge e si ripara ai piedi di enorme abete. L’albero passa di stagione in stagione, finché viene tagliato e trasformato dapprima in una sorta di “Albero della cuccagna” per la festa del paese, poi viene trasformato in carbone nella fornace che abbiamo visto all’inizio del film.

Il titolo del film e la sua struttura quadripartita fanno riferimento a una frase della scuola pitagorica secondo cui l’uomo deve conoscersi quattro volte, nella sua essenza umana, animale, vegetale, minerale.

Vite che scivolano l’una nell’altra, quasi per metempsicosi, in questo film di Frammartino, già autore dell’acclamato “Il dono”, che qui costruisce un film sulla meraviglia delle cose evidenti e di quelle nascoste, come il fumo della fornace di carbone che, nel prologo e nel finale, alternativamente copre e scopre il luogo da cui proviene. O più in generale, mostra eventi semplici, ma in maniera tale da farci sentire coinvolgente anche l’immagine più banale, come volesse farci vedere le cose per la prima volta, siano esse il barbaglio della polvere in una striscia di luce, o la nascita di un capretto.

Le quattro volte

Qualcuno lo ha definito come film di “fantascienza senza effetti speciali”. Forse perché vedere le cose per la prima volta ce le fa apparire magiche, come avessero ancora addosso la patina dell’ignoto e del mistero. Sono i casi in cui il reale è ancora più straordinario dell’irreale, e il film di Frammartino ne vede molti.

È così, ad esempio, nella scena della morte del pastore, con la casa invasa dalle capre fuggite dall’ovile e poste attorno al letto del moribondo. È una scena in cui si perde la definizione tra gli spazi  esterni e interni (Frammartino ammette a questo proposito di esser rimasto molto affascinato dalle ambientazioni dei film di Tarkovskij, dai luoghi paradossali come le stanze di Stalker e le casa di Solaris, al cui interno piove copiosamente). O ancora, si potrebbe ricordare la scena precedente, quella di un pianosequenza formidabile per come sfrutta i fuori campo visivi e sonori, per la coordinazione tra i vari eventi, gli attori, nonché gli animali coinvolti. La scena vede una sacra rappresentazione in costume per le vie del paese, con il recinto delle capre da un lato, gli astanti e gli interpreti del corteo dall’altro. Se nella scena della morte del pastore avevamo la confusione dello spazio, in questo pianosequenza abbiamo la confusione del tempo, la sua sospensione (il film è stato girato tra Alessandria del Carretto, Caulonia, Serra San Bruno, stupendi paesi calabresi dove per fortuna o purtroppo il tempo si è davvero fermato), o l’impossibilità di distinguere in esso ciò che è passato e ciò che è presente, arcaico e contemporaneo, quasi a suggerire una dimensione di eternità/perpetuità, che è poi la dimensione dei cicli naturali di trasformazioni raccontati dal film, che si apre e si chiude con una fornace di carbone, quasi alchemico athanor per la trasformazione della materia.

Anche il film funziona come “corpo” da trasformare, nelle parole del regista: “considero il film un corpo morto che ha bisogno dello sguardo attivo dello spettatore per prendere vita”. Se questo film riesce a convolgerci –e lo fa-, se riesce a farci entusiasmare mostrando cose semplici, evidenti, quotidiane ma forse dimenticate, allora è sicuramente un film vivente.

 

 

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