Tatami, la recensione di un film rivelazione

Arriva al cinema un dramma di forza politica impressionante, secondo Alberto Barbera che lo ha voluto a Venezia '80.

-

Definito, non senza esagerazione, come il film rivelazione della Mostra del Cinema di Venezia 2023, arriva al cinema Tatami, film diretto dal regista di origine israeliana Guy Nattiv (Premio Oscar per Skin) e dalla regista e attrice franco-iraniana Zar Amir (Miglior Attrice a Cannes per Holy Spider) che il Direttore Alberto Barbera ha definito “un thriller di forza politica impressionante” inserendolo nella sezione Orizzonti di Venezia 80. Una storia molto attuale, nel suo raccontare del divieto agli atleti iraniani a incontrare gli avversari israeliani in occasione di eventi internazionali e della rinuncia di molti di quelli ai propri sogni, o alla propria vita. Variety, anche per questo, ne aveva parlato come di un film “straordinario potente, glorioso” e “destinato a fare la storia”, ora saranno gli spettatori italiani a poter giudicare, in sala, dove BiM lo distribuisce dal 4 aprile.

 

Tatami, la trama

Arrivata ai campionati mondiali di judo con la convinzione di far bene, dopo i primi incontri vittoriosi la judoka iraniana Leila Hosseini (Arienne Mandi) e la sua allenatrice Maryam Ghanbari (Zar Amir) ricevono l’ordine da parte della Federazione nazionale e dalla ‘Guida Suprema’ della Repubblica islamica di ritirarsi dalla che competizione. Leila dovrà fingere un infortunio per non incontrare l’avversaria israeliana (Lir Katz) e non essere vista come traditrice dello Stato, ma soprattutto per non vedere minacciata la propria libertà e quella della sua famiglia. Terrorizzata per la sorte del marito, del figlio piccolo e degli anziani genitori, Leila non vuole però obbedire al regime, come la sua allenatrice la implora di fare, e rinunciare a quell’oro per il quale ha sacrificato tanto.

- Pubblicità -
 
 

Il primo film co-diretto da un’iraniana e un israeliano

La storia che raccontiamo in questo film è la storia di troppi atleti iraniani che hanno perso le opportunità della vita e sono stati talvolta costretti a lasciare il proprio Paese e i propri cari a causa del conflitto tra governi“, ha dichiarato Zar Amir-Ebrahimi, che con il collega ricompone dietro la macchina da presa un’accoppiata che sana idealmente il conflitto mostrato sullo schermo e si propone di omaggiare la memoria delle varie Sadaf Khadem (prima pugile iraniana a rifugiarsi in Francia, dove è diventata promotrice dei diritti delle donne) Elnaz Rekabi (l’arrampicatrice su roccia che ha gareggiato senza indossare la hijab, consapevole di rischiare la morte al suo ritorno), Kimia Alizadeh (ragazza prodigio del taekwondo iraniano che ha lasciato il paese insieme al marito a causa delle minacce governative), e molte altre.

Tatami è un invito alla fratellanza che arrivano in un momento in cui il prolungato massacro in corso nella Striscia di Gaza rischia di portare a una escalation pericolosa, dopo l’attacco a Damasco di questi giorni e la reazione iraniana. Due modi diversi di fare la storia, che i registi sottolineano anche con il racconto sullo schermo, girato “a due ore di distanza da Tel Aviv e da Tehran, a Tbilisi, in Georgia”, al crocevia tra Asia ed Europa, dove si svolgono i Campionati Mondiali teatro del dramma.

Forma e sostanza di un dramma moderno e contemporaneo

Che sin dall’inizio punta a combinare immagini ricche di significati con una forma capace di sostenerle e sottolinearle. Come per il bianco e nero scelto per evidenziare la polarizzazione e il radicalismo della realtà rappresentata (e che a qualcuno ricorderà certo Von Trier o i vecchi Coen, anche per i primi piani insistiti e le riprese di dettagli ‘secondari’, anche fisici). O come per la circolarità e compiutezza che suggeriscono le immagini iniziale e finale, speculari e insieme assolutamente opposte e contrarie, e la scelta di ritirarsi a osservare da lontano, in alcuni casi da dietro una porta, con una visuale ridotta, che evidenzia – anche oltre il necessario – il ruolo del regista e la sua distanza dall’oggetto, spostando il punto di vista dello stesso spettatore e invitandolo a considerarne di diversi.

Tatami_film
Foto di Juda Khatia Psuturi

C’è una sorta di didascalismo in queste esagerazioni (per esempio, nella difficoltà di respirare della protagonista durante i quarti di finale) del quale si sarebbe potuto fare a meno, ma che non indebolisce la drammaturgia generale. Anzi. Più variazione sul tema del courtroom drama che film sportivo tout court, nonostante ambientazione e cliché, Tatami guarda all’epica oltre che al cinema politico, sempre riuscendo a far convivere anime tanto diverse approfittando di flashback e linee parallele (con gli accenni alla sorte di familiari e amici rimasti in Iran). Elementi – apparentemente inessenziali – che aggiungono dinamismo alla storia, ma che pur interrompendo la sostanziale unità di tempo (tutto si svolge in una notte) e luogo scelta non allentano la tensione né distraggono dal racconto principale, grazie anche al fondamentale apporto della fotografia di Todd Martin e del montaggio di Yuval Orr.

Una guerra senza vincitori

Il resto, lo fanno le due intense protagoniste, la judoka e l’allenatrice, e in generale le tante donne che circondano la stessa Leila, dalla sua ipotetica avversaria Shani (con la quale il rapporto umano sarebbe diverso se non fosse condizionato dalle politiche di nazioni che continuano guerre senza fine, a meno di non sterminare intere etnie) alle rappresentanti dell’istituzione sportiva (ma è facile vedere nella Federazione mondiale di Judo una ipotetica ONU), costrette a scontrarsi tra loro da un sistema che le priva della libertà e le sfrutta. L’impotenza, la paura e ancor più la rabbia che esprimono – anche fisicamente, con un linguaggio del corpo notevole o con alcuni gesti simbolici (come il rifiuto del velo) – e che emerge dall’evolversi degli eventi e della determinazione delle due donne, danno al film una forza allegorica e narrativa che raggiunge comunque lo spettatore con durezza. E alla quale la traduzione di “tools” con “marionette”, nel ridondante e un po’ retorico finale, toglie qualcosa, soprattutto considerata la difficoltà di molti a riconoscere come “strumento” in mano a interessi superiori tanto chi perpetra certi crimini, quanto chi continua a subirli come vittima innocente.

Sommario

Il resto, lo fanno le due intense protagoniste, la judoka e l'allenatrice, e in generale le tante donne che circondano la stessa Leila, dalla sua ipotetica avversaria Shani alle rappresentanti dell'istituzione sportiva (ma è facile vedere nella Federazione mondiale di Judo una ipotetica ONU), costrette a scontrarsi tra loro da un sistema che le priva della libertà e le sfrutta.
Mattia Pasquini
Mattia Pasquini
Nato sullo scioglimento dei Beatles e la sconfitta messicana nella finale di Coppa del Mondo, ha fortunosamente trovato uno sfogo intellettuale e creativo al trauma tenendosi in equilibrio tra scienza e umanismo. Appassionato di matematica, dopo gli studi in Letterature Comparate finisce a parlare di cinema per professione e a girare le sale di mezzo mondo. Direttore della prima rivista di cinema online in Italia, autore televisivo, giornalista On Air e sul web sin dal 1996 con scritti, discettazioni e cortometraggi animati (anche in concorso al Festival di Cannes), dopo aver vissuto a New York e a Madrid oggi vive a Roma. Almeno fino a che la sua passione per la streetart, la subacquea, animali, natura e ogni manifestazione dell'ingegno umano non lo trascinerà altrove.

ALTRE STORIE

Il resto, lo fanno le due intense protagoniste, la judoka e l'allenatrice, e in generale le tante donne che circondano la stessa Leila, dalla sua ipotetica avversaria Shani alle rappresentanti dell'istituzione sportiva (ma è facile vedere nella Federazione mondiale di Judo una ipotetica ONU), costrette a scontrarsi tra loro da un sistema che le priva della libertà e le sfrutta.Tatami, la recensione di un film rivelazione