The Whale: recensione del film con Brendan Fraser

La recensione di The Whale, film di Darren Aronofsky con Brendan Fraser e Sadie Sink protagonisti, in concorso a Venezia 79.

The Whale recensone film

Certe ferite uccidono la mente. Dilagano imperterrite in un oceano di colpe, illusioni perdute: diventano una balena nera, che divora ogni minimo spazio in cui potremmo vedere la luce. Dopo aver vinto il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia con The Wrestler, Darren Aronofsky torna al Lido con The Whale, un dramma in cui il senso di colpa è incapsulato in un corpo strabordante, quello di Charlie (Brendan Fraser), che ha assunto su di se le piaghe di un’esistenza dolorosa, un oceano in cui si sguazza senza muoversi, costretti su un divano che fagocita ogni riverbero di speranza.

 

The Whale: la storia di Charlie

La trama, basata sull’omonima opera teatrale di Samuel D. Hunter, è incentrata su Charlie (Brendan Fraser), un insegnante di inglese solitario che soffre di grave obesità e cerca di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente (Sadie Sink) allontanata dopo essersi dichiarato omosessuale.

The Wrestler seguiva il tortuoso calvario del personaggio di Randy “The Ram” Robinson, una vecchia star del wrestling che cercava di riallacciare i rapporti con una figlia abbandonata mentre si autodistruggeva sul ring con pugni e calci acrobatici. Non solo ha incoronato il regista americano ma ha anche segnato il ritorno trionfale (anche se di breve durata) di Mickey Rourke ai vertici della recitazione: una rinascita che lo ha portato a sfiorare l’Oscar a Hollywood. Ora, con The Whale, Aronofsky sembra voler ripetere il suo successo con un claustrofobico dramma familiare in cui Brendan Fraser, condannato per anni all’ostracismo, offre un’interpretazione sensazionale. Due lavori sulle fisicità degli attori apparentemente diverse, ma completementari: il corpo come riflesso di mancanze e dipendenze, come autoflagellazione, è un discorso che Aronofsky porta avanti fin da Requiem for a Dream (2001).

 

The Whale recensione del film

Salvare gli altri per salvare se stessi

Charlie è assistito quotidianamente da Liz (Hong Chau), un’infermiera risoluta e integerrima che lo aiuta nella difficilissima gestione della sua condizioni fisica precaria, anche se, come dicevamo, questa incommensurabile afflizione affonda le radici in un fitto arazzo di cicatrici emotive. Traumatizzato da una tragica perdita e percependo la fine dei suoi giorni, Charlie cerca di ristabilire il legame con la figlia diciassettenne Ellie, ma il peso del tempo perduto si rivela un fardello difficile da portare: ci sono verità dal passato che è dura affrontare da soli. Eppure Charlie capisce che, se non può salvare se stesso, può almeno tentare di salvare gli altri, il che implica trovare un canale per intercettare il buio dell’abisso ed emergere dalle acque.

Abbracciando una messa in scena più classica e ortodossa, Aronofsky prende le distanze dalla sperimentazione formale e narrativa che ci aveva proposto con Madre! (2017), ma non abbandona l’attenzione verso spazi e situazioni claustrofobiche. Contenendo il proprio estro creativo dal punto di vista formale, Aronofsky si butta a capofitto nella drammatizzazione di relazioni scomposte e brutali, ma anche inaspettate e di breve durata, e che possiamo veramente interpretare solo rifacedoci alla biografia dell’autore del testo teatrale. L’eccesso, la tendenza verso gli estremi di Aronofsky, qui è rappresentata al meglio dal processo autodistruttivo del protagonista: grottesche aritmie e rischi di soffocamento, abbuffate selvagge, cadute, un’immobilità lacerante, anche se il dolore più lancinante per Charlie risiede nel suo cuore. Mentalmente, è lucidissimo, colto, accomodante. La letteratura, insegnata e visitata quotidianamente, è l’unico canale di comunicazione che Charlie ha con il mondo esterno. Nonostante sia un grandissimo comunicatore, si serve però spesso delle parole degli altri per fermare il pericolo, fisico e mentale.

Charlie ci appare come un personaggio toccato fin troppo dalla sventura, infausta circostanza che Aronofsky accentua invitando la maggior parte dei personaggi a trattarlo con disprezzo; è quasi come se Charlie cercasse di indurre chi gli sta intorno a cadere nel disinteresse, proprio perché egli è il primo che sembra non preoccuparsi del suo stato di salute. Tuttavia, pian piano si disvelerà ai nostri occhi il retroscena morale e idelogico di questa nuova “preghiera cinematografica” di Aronofsky, che si aggrappa nuovamente al concetto di fede nel prossimo e all’idea della conquista di una certa luce (o elevazione esistenziale) attraverso il sacrificio.

La fenomenale performance di Brendan Fraser

In questo cammino verso la morte/rinascita, Charlie non è però mai solo: certo, il dialogo con gli altri è difficile, ma c’è sempre qualcuno che vuole entrare in casa. Il delivery della pizza, il giovane evangelizzatore Thomas, la figlia Ellie e perfino l’ex moglie. L’espressività emotiva guida la penna di The Whale e la caratterizzazione di Charlie che, tra un inciampo e l’altro, si consolida come uno dei personaggi che non dimenticheremo facilmente nella prossima stagione degli Oscar.

The Whale dà infatti il meglio di sé quando Aronofsky lascia che Fraser sia Fraser. Sotto i chili di protesi c’è la stessa star sincera e dal cuore aperto che ha conquistato il pubblico negli anni Novanta: questo emerge soprattutto nel rapporto con l’infermiera Liz, veicolo per accedere non solo all’anima di Charlie ma anche alla star che vi è sotto. La dolcezza dell’anima di Fraser emerge lentamente come un potente contrappeso alla brutalità della condizione che lo consuma.

Dall’interiorità più pura passiamo all’immensità celestiale con The Whale, che conserva alcuni dei tratti di scrittura archetipici di Aronofsky ma ci fa un regalo immenso: lasciare spazio alle storia. A quella di Charlie, prima di tutto, di purezza e redenzione, a quella delle famiglie e del loro potere salvifico, e a quella di un regista che si avvicina allo spettatore come mai aveva fatto prima.

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Voto di Agnese Albertini
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the-whale-brendan-fraserThe Whale conserva alcuni dei tratti di scrittura archetipici di Aronofsky ma ci fa un regalo immenso: lasciare spazio alle storia. A quella di Charlie, prima di tutto, di purezza e redezione, a quella delle famiglie e del loro potere salvifico, e a quella di un regista che si avvicina allo spettatore come mai aveva fatto prima.