Titane: la recensione del film di Julia Docurnau

Titane Julia Docurnau

Vincitore a sorpresa della Palma d’Oro al Festival di Cannes, Titane potrebbe purtroppo essere semplicisticamente ricordato come il film dove la protagonista viene messa incinta da un’automobile. Non sono in pochi ad aver deriso questo elemento della pellicola, tra cui anche note personalità di cinema, sminuendo però così un racconto e una visione molto più complesse di quanto apparentemente può sembrare. Il film diretto dalla francese Julia Docurnau, divenuta dunque la seconda donna a vincere il principale premio di Cannes (la prima è stata Jane Campion nel 1993 con Lezioni di piano) è infatti un’opera che sfrutta il genere e le sue perversioni per affrontare tematiche e dinamiche attuali e in continuo mutamento.

 

Queste, di cui si parlerà meglio tra poco, si incarnano in Alexia (Agathe Rousselle), la quale sin da bambina adora le automobili, specialmente dopo che un incidente d’auto con il padre le ha donato una placca di titanio nella testa. Da qui prende vita la sua storia e la sua follia. Cresciuta con questa particolarità, Alexia è infatti diventata una donna gonfia di rabbia e amore represso, elementi che la trasformano sempre più in un essere ibrido e nuovo. Costretta a nascondersi per via di alcuni brutali crimi da lei commessi, Alexia decide di fingersi il figlio scomparso di Vincent (Vincent Lindon), pompiere mentalmente problematico che non si accorge, o finge di non accorgersi, di avere a che fare con un impostore. Dal loro incontro, però, nascerà qualcosa di inaspettato che li porterà a riscoprire la propria umanità.

Tra corpo e genere

Qui alla sua opera seconda, la Docurnau si dimostra intenzionata a portare avanti elementi e simboli già comparsi nel suo primo film, Raw, del 2016. Indicato come uno degli horror più disturbanti degli ultimi anni, in questo si affrontava il cannibalismo legato ad un vero e proprio coming of age della protagonista. Il corpo, la carne e la lacerazione di questo ritornano dunque anche in Titane, legandosi non più solo alle trasformazioni e alla crescita personale, ma anche, ovviamente, a quella sessuale. Alexia si presenta dunque come il manifesto dell’ibridazione tra identità diverse, portando avanti questo suo aspetto con una forza e una violenza che contrasta ogni opposizione che trova sul proprio cammino.

All’interno del film Alexia diventa sempre più una metafora vivente per raccontare la ricerca di sé al di là di quanto la natura voglia raccontare. Si tratta di un personaggio che sfugge ad ogni definizione, se non per la sua volontà di rientrare in quella di “figlio/a”. Con l’ingresso in scena di Vincent viene infatti a consolidarsi quel rapporto genitoriale che da una parte sembra ribadire come i legami famigliari non siano definiti solo dalla biologia, e dall’altra mira a proporre nuovi riflessioni proprio su queste relazioni e sul loro valore nella società contemporanea.

Titane, come affermato anche dallo stesso Lindon, può allora essere visto come un storia d’amore, incentrata sulla ricerca di quegli elementi che ci rendono umani. Elementi che nella continua ibridazione tra carne e metallo sembrano anestetizzarsi senza però spegnersi mai. L’esplorazione che la Docurnau fa di tutto ciò la porta dunque a proporre un’opera ricca di temi oggi quotidianamente affrontati, ibridandoli a loro volta in una messa in scena ultra postmoderna, tanto nella costruzione visiva quanto nella successione di eventi e nella costruzione dei personaggi.

Titane recensione

Titane, la recensione del film

Alla luce di tutto ciò, Titane si presenta dunque come un’opera conturbante sotto più punti di vista, un esperimento a suo modo anche ostico che non lascerà di certo indifferenti quanti vi si misureranno. Tematiche sociali e attuali, certo, ma raccontate attraverso una miscela di generi il cui portabandiera è quel body horror reso tanto celebre da David Cronenberg. Pur presentando profondi debiti nei confronti del cinema del regista canadese, il film della Docurnau lascia intravedere una volontà di reggersi da solo senza il bisogno di paragoni e confronti. Titane vuole essere un’opera autonoma, come lo è la sua protagonista, e in molti momenti sembra avere la forza di esserlo, con un ritmo spesso particolarmente serrato o con emozioni capaci di colpire anche nei momenti più inaspettati.

Non mancano però anche dei momenti di maggior incertezza, specialmente nella seconda metà del film. Da lì in poi Titane sembra prendersi troppo sul serio, perdendo la dirompenza che aveva fino a quel momento mostrato e trovando in alcune ingenuità della sceneggiatura il suo principale freno. La Docurnau, come Alexia, sembra dunque ancora alla ricerca delle propria identità come regista, ma questo suo secondo lungometraggio anche al netto delle pecche le permette di affermarsi ancor di più come un nome da tenere d’occhio per il futuro. Titane, con la sua violenza, le sue musiche, le sue luci e i suoi personaggi fuori dal comune, è infatti ben più che “il film dove la protagonista viene messa incinta da un’automobile”.

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Gianmaria Cataldo
Laureato in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è un giornalista pubblicista iscritto all'albo dal 2018. Da quello stesso anno è critico cinematografico per Cinefilos.it, frequentando i principali festival cinematografici nazionali e internazionali. Parallelamente al lavoro per il giornale, scrive saggi critici e approfondimenti sul cinema.
titane-julia-docurnauTitane vuole essere un'opera autonoma e ibrida, come lo è la sua protagonista, e in molti momenti sembra avere la forza di esserlo, con un ritmo spesso particolarmente serrato o con emozioni capaci di colpire anche nei momenti più inaspettati. Non mancano le incertezze e alcuni inciampi, ma il film e la sua regista dimostrano un potenziale che va ricercato al di là delle scene più scabrose.