Una Sconfinata Giovinezza: recensione

Una Sconfinata Giovinezza

Se l’intento in Una Sconfinata Giovinezza è quello di passare un’ora e mezza nella spensieratezza di immagini facili e rasserenanti, di distrarsi dopo una giornata di vita, di uscire dal cinema senza l’amaro in bocca, Una sconfinata giovinezza è il film sbagliato. A Pupi Avati interessa indagare la mente umana nelle situazioni più estreme, quando le logiche quotidiane si capovolgono, quando ciò che è dato per scontato perde la propria ovvietà.

 

Per questo compone qualcosa di denso, pesante, profondo, qualcosa che ti chiede di immergerti nella sofferenza, di respirarla. Eppure è costantemente visibile il tentativo di equilibrare cautamente e continuamente la tragicità del tema con dosi di leggerezza, con attimi d’ironia che si trasformano nel cervello di chi guarda in un domandarsi come si può sorridere di una situazione del genere. Il regista con Una Sconfinata Giovinezza affronta il dramma di un uomo colpito dall’Alzheimer, che se tra tutte le malattie si potesse scegliere la più cattiva, la più umiliante, questa forse vincerebbe la medaglia d’oro. E così, mentre un famoso giornalista sportivo, diviso tra tv e carta stampata, inizia a dimenticare, giorno dopo giorno, il significato delle parole, suo pane quotidiano ormai da anni, la moglie ne spia spaventata i movimenti, i cambiamenti.

In Una Sconfinata Giovinezza Lino e Chicca sono sposati ormai da venticinque anni quando lui inizia ad allontanarsi sempre di più dal presente per vagare altrove, nella sua Bologna dell’infanzia, nell’auto distrutta dei genitori morti in un incidente a cui è sopravvissuto solo il cane, nella casa della zia, dall’amico senza palato che sapeva a memoria le tabelline. La perdita di controllo, di dignità, di credibilità, la violenza, non allontanano la moglie che decide di accompagnarlo nel processo regressivo, iniziando a giocare con lui, insegnandogli la matematica, trasformando un amore, intriso di stima, verso un compagno di vita, in quello viscerale e nuovo per un figlio mai avuto prima.

Del film restano nella mente i paesaggi, i colori, i dialetti emiliani che si è poco abituati a sentire sul grande schermo. Colpisce la perfetta interpretazione di Francesca Neri, invecchiata ad hoc, nei panni della donna, docente universitaria, appartenente a una famiglia borghese che sforna figli come conigli. Sofferente ma lucida nelle decisioni, forte e sicura nonostante le botte mai prese prima, è lei l’eroina, la vera protagonista del dramma. Nella parte del malato recita Fabrizio Bentivoglio, in quelli della zia, Serena Grandi. Una sconfinata giovinezza mostra il legame che noi tutti abbiamo con il ragazzino che siamo stati: c’è chi riesce a relegarlo nel passato, chi, invece, lascia tutto per cercarlo.

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