We are the World. La notte che ha cambiato la storia del pop: la recensione del documentario Netflix

Il documentario è disponibile dal 29 gennaio su Netflix.

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Sono passati 39 anni da quando fu incisa una delle canzoni simbolo degli anni Ottanta, We are the World, per sollevare l’attenzione sul tema della povertà in Africa. We are the World. La notte che ha cambiato la storia del pop, il documentario diretto da Bao Nguyen che ne porta il titolo, racconta la lunga sessione di registrazione e lo straordinario lavoro di preparazione che ha consentito di riunire per beneficienza quasi cinquanta artisti agli A&M Studio di Los Angeles nella notte tra il 28 e il 29 gennaio 1985 per interpretare il brano.

 

C’erano proprio tutte, o quasi, le voci più note dell’epoca, oltre ad alcune ingloriose assenze, come quella di Madonna, ritenuta una fugace meteora, alla quale fu preferita la ‘rivale’ Cindy Lauper, e Prince, che snobbò invece l’invito a partecipare a brano già assegnato. Il numero dei cantanti riuniti in studio scese a quarantaquattro dopo le defezioni in corso d’opera di Waylon Jennings, che rifiutò la proposta di cantare un verso in swahili non comprendendone il significato, e di Sheila E, batterista di Prince, stanca di sentirsi chiedere quando sarebbe arrivato Lui.

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We are the World. We are the Stars

Il documentario racconta il dietro le quinte di quella notte ma, soprattutto, le settimane che l’hanno preceduta e durante le quali lo staff del produttore musicale Ken Krieger ha organizzato l’evento con modalità da agenti dei servizi segreti per non far trapelare la notizia. Niente smartphone, email, chat a disposizione: stiamo parlando di quattro decennni fa, quando i business men viaggiavano con valigie ricolme di rubriche cartacee e i cantanti incidevano i demo su musicassetta. Portar fuori dalle chart e dai tour mondiali le star più acclamate dell’epoca per farle incontrare in una data condivisa da tutti apparve fin da subito estremamente complicato. Come ci riuscirono?

USA for Africa: dagli American Music Awards all’Etiopia

Fu Harry Belafonte ad avere l’idea di quello che nasce come l’Ethiopia Project. La sua attività per il riconoscimento dei diritti civili e l’attenzione per le condizioni della povertà in Africa erano note, per quanto, come testimonierà tra gli altri Bruce Springsteen, non si parlava né si sapeva molto del problema della fame (e chissà se il Boss avrà poi apprezzato il titolo originale inglese del film, We are the Word. The greatest night in Pop, dimenticandosi completamente dei rocker). Il 23 dicembre 1984, Belafonte propone a Kriegen di organizzare un evento per sollevare l’attenzione sulla questione, perché “i bianchi salvano i neri ma non ci sono neri che salvano i neri“.

Il riferimento è chiaramente a Bob Geldof, in corsa per il Live Aid che si sarebbe tenuto nel successivo mese di luglio. Nessuna competizione tra i due eventi, tanto che Geldof portò di persona i suoi saluti agli A&M Studios per raccontare ai colleghi gli aspetti della povertà in Africa e l’importanza dell’aiuto che sarebbe potuto arrivare anche solo da quel semplice brano. Il vero motivatore della serata e dell’intera avventura fu tuttavia Lionel Richie, narratore principale nel video e mattatore dell’evento benefico, che per tutta la notte si mosse da un gruppo all’altro per raccogliere focolai di discontento e spegnerli tempestivamente.

Il 28 gennaio, Richie, all’apice della sua carriera, avrebbe presentato gli American Music Awards: tutte le personalità più importanti del mondo della musica USA sarebbero state riunite nella stessa città, in uno stesso luogo: quale altra occasione avrebbe consentito di avere tutte quelle star in una volta? Gli artisti furono invitati a incidere subito dopo la cerimonia di premiazione. Alcuni mossi dallo scopo benefico dell’operazione, altri semplicemente legati da un profondo rapporto di stima agli organizzatori. Mancava solo la canzone e qui cominciano gli aneddoti con Stevie Wonder che, contattato per primo dal produttore Quincy Jones, se la prende comoda e Lionel Richie che si ritrova a comporre musica e testo di We are the World nella villa-zoo di Michael Jackson in mezzo a uccelli, scimmie e pitoni.

We are the World. La notte che ha cambiato la storia del pop Michael Jackson Bob Dylan

Tutto in una notte

Una sola notte a disposizione per legare insieme voci, altezze e personalità di oltre quaranta primedonne. Jones appese un foglio A4 all’ingresso della sala di registrazione con su scritto ‘Check your Ego at the door’ e, a giudicare dai filmati d’archivio, lo scopo è stato raggiunto, tanto che alla fine c’è chi, come Diana Ross, scoppia a piangere perché non vuole che quella notte finisca.

Il documentario si avvale anche del materiale audio raccolto dal giornalista David Breskin, della rivista Life Magazine, che intervistò molti degli intervenuti nelle settimane precedenti la registrazione, fermando anche testimonianze oggi impossibili da recuperare come quella di Jackson.

Tre mesi dopo la canzone fu trasmessa dalle radio di tutto il mondo e fu un successo: We Are the World totalizzò un milione di dollari nel primo fine settimana di vendite per raggiungere la cifra record di ottanta milioni di dollari. La somma fu destinata all’Etiopia, toccata da una pluriennale carestia che le Nazioni Unite stimarono aver provocato un milione di morti. Sarebbe bello sapere come fu speso il denaro raccolto per la beneficienza ma per questo ci vorrebbe un altro documentario.

Sommario

Il documentario diretto da Bao Nguyen racconta la lunga sessione di registrazione e lo straordinario lavoro di preparazione che ha consentito di riunire per beneficienza quasi cinquanta artisti agli A&M Studio di Los Angeles nella notte tra il 28 e il 29 gennaio 1985 per interpretare il celebre brano.

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Il documentario diretto da Bao Nguyen racconta la lunga sessione di registrazione e lo straordinario lavoro di preparazione che ha consentito di riunire per beneficienza quasi cinquanta artisti agli A&M Studio di Los Angeles nella notte tra il 28 e il 29 gennaio 1985 per interpretare il celebre brano.We are the World. La notte che ha cambiato la storia del pop: la recensione del documentario Netflix