Berlino 2016: Chi-Raq recensione del film di Spike Lee

Dopo l’11 settembre sappiamo bene quanto gli USA siano stati impegnati in Afghanistan e in Iraq, “missioni di pace” costate migliaia di vite, giovani partiti con addosso più speranze che paure e mai più tornati. Anche se è difficile da credere, esiste però una città proprio all’interno degli Stati Uniti in cui i morti, ogni anno, sono di molto superiori alle vittime generate dalle guerre e dalle moderne invasioni: Chicago.

 

Un luogo al di là della legge, oltre ogni regola territoriale e morale, dove le battaglie intestine fra gang lasciano costantemente scie di sangue nelle strade. A morire non sono solo i nuovi gangsters, ci si scontra con una lista infinita di innocenti, bambini e passanti trovatisi nel posto sbagliato nel momento sbagliato, colpiti da pallottole vaganti senza motivo. A completare il quadro disperato dell’intero fenomeno, un esercito di ragazzi mutilati, operati, resi disabili e costretti alla sedia a rotelle sempre per colpa delle frequenti sparatorie e delle lesioni conseguenti.

Un problema quasi esclusivamente da ‘neri’, motivo per cui un autore attento a queste problematiche come Spike Lee ne ha fatto un film per gli Amazon Studios. Giocando con le parole Chicago e Iraq, per indicare una guerra interna e silenziosa, è nato così Chi-Raq, nome di un rapper di quartiere che vive di pallottole, donne e rime. Della fazione opposta invece il Ciclope, un uomo di colore con una benda su un occhio che rivendica gran parte del territorio.

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Ispirato in maniera molto libera e sregolata dalla Lisistrata del poeta greco Aristofane, il film è un delirio collettivo sotto forma di musical, probabilmente un omaggio formale a West Side Story, con un obiettivo sempre chiaro e a fuoco: ridicolizzare le guerre fra bande, le armi e le istituzioni che ignorano la realtà delle cose, sognando una comunità libera in cui si possa passeggiare per strada senza il pericolo di rimanere uccisi.

Una rivoluzione di chiara matrice femminile, che secondo la sceneggiatura dello stesso Spike Lee e Kevin Willmott si traduce in uno sciopero del sesso ad oltranza da parte delle donne del quartiere, da portare avanti fino a strappare una pace duratura ai maschi tenuti sotto scacco. Oltre l’ironia generale delle coreografie, dello slang sempre in rima e del ‘grillo parlante narratore’ che ha il volto di Samuel L. Jackson, si tratta di un’opera ambiziosa dal grande significato simbolico. Una presa di coscienza anarchica e scanzonata sia dal punto di vista artistico che di contenuto, che davvero pochi autori avrebbero corso il rischio di fare. Probabilmente un lavoro esagerato, pomposo, ma funzionale, pronto a raggiungere gli angoli più bui dei sobborghi di Chicago; chissà che la musica non possa compiere il suo ennesimo miracolo.

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