Arriva anche nelle sale italiane, con un giorno d’anticipo rispetto all’uscita statunitense, I, Frankenstein, adattamento cinematografico dell’omonima graphic novel di Kevin Grevioux. Il film, scritto e diretto da Stuart Beattie, vede protagonista Aaron Eckhart nei panni di Adam, la creatura del dottor Frankenstein, qui reinventata come eroe tormentato in un mondo gotico e distopico, sospeso tra fantascienza e azione sovrannaturale.
Con atmosfere cupe e un’estetica ispirata alla saga di Underworld, di cui condivide produttori e tono visivo, I, Frankenstein ambisce a rilanciare il mito della creatura di Mary Shelley in chiave contemporanea, mescolando mito, fantasy e cine-comic. Il risultato, però, è un esperimento ambizioso solo sulla carta: una produzione che punta al franchise ma finisce per smarrire la potenza tragica e umana del suo protagonista.
Tra bene e male: la creatura senza un’anima

Due secoli dopo la sua creazione, Adam – l’essere plasmato dal dottor Frankenstein – vaga ancora sulla Terra, sopravvissuto al tempo e alla morte. Il mondo che lo circonda è però in rovina, diviso da una guerra millenaria tra i demoni, che bramano il dominio dell’umanità, e i gargoyle, guardiani celesti incaricati di proteggerla. In questo scenario, Adam scopre di essere la chiave per la distruzione del genere umano: un essere immortale e unico, conteso da entrambe le fazioni.
La sua ricerca di identità si intreccia con l’incontro con Terra Wade (Yvonne Strahovski), una scienziata che rappresenta l’unico legame umano in un mondo dominato dal sovrannaturale. Ma il percorso verso la consapevolezza si perde presto in una narrazione frammentaria, dove il conflitto morale lascia spazio a un susseguirsi di combattimenti e dialoghi privi di peso emotivo.
La promessa iniziale di un racconto gotico esistenziale – in linea con il tormento espresso da Mary Shelley – si dissolve in un susseguirsi di effetti visivi e colpi di scena prevedibili.
Quello che poteva essere un dramma sul confine tra umanità e mostruosità diventa così un action movie generico, più interessato allo scontro tra creature digitali che al dolore del suo protagonista.
Un’estetica derivativa e una CGI che delude
Il principale difetto di I, Frankenstein è il suo eccesso di ambizione visiva a fronte di una scrittura povera e poco ispirata. La sceneggiatura di Beattie procede per accumulo, sacrificando tensione e coerenza a favore di una continua escalation di battaglie digitali. Persino il design dei mostri e dei gargoyle, che dovrebbe essere il punto di forza, si rivela datato e poco convincente, con una CGI che alterna buoni spunti a momenti quasi televisivi.
Alcune scenografie, come la cattedrale dei gargoyle o i laboratori sotterranei, conservano un fascino gotico degno di nota, ma non bastano a compensare la mancanza di profondità emotiva. Il film si concentra sull’azione ma dimentica il pathos, riducendo il mito di Frankenstein a un pretesto per inseguimenti e duelli al rallentatore. È come se la creatura, privata della sua anima, fosse divenuta il simbolo stesso dell’operazione: un corpo perfetto ma vuoto, privo di scintilla vitale.
Un cast solido in un film senza identità
A tenere in piedi la pellicola è soprattutto il cast, che riesce a dare dignità ai propri ruoli anche in un contesto narrativo debole. Aaron Eckhart si cala con serietà nei panni di Adam, regalando al personaggio un tormento fisico e interiore che il film non sempre riesce a sostenere. Bill Nighy, nel ruolo dell’antagonista Naberius, è come sempre impeccabile, elegante e ironico anche quando il copione non lo assiste. Miranda Otto presta grazia e autorevolezza a Leonore, regina dei gargoyle, mentre Yvonne Strahovski — pur confinata in un ruolo secondario — aggiunge una nota di umanità e delicatezza.
Nel complesso, I, Frankenstein rimane un film che non osa veramente: cerca la spettacolarità ma dimentica la sostanza, costruisce un universo narrativo senza regole chiare, e confonde la mitologia con la semplice estetica dark. Più che un nuovo capitolo nell’eredità di Shelley, sembra un esercizio di stile hollywoodiano, elegante ma senz’anima.
Conclusione
I, Frankenstein è un ibrido che tenta di fondere azione, fantasy e horror gotico senza mai trovare un equilibrio. Pur sostenuto da un buon cast e da qualche suggestione visiva, il film si perde tra cliché, CGI invadente e un racconto che dimentica la tragedia originaria della sua creatura. Un’opera che, paradossalmente, soffre dello stesso destino del suo protagonista: bella da vedere ma priva di vita vera.
I, Frankenstein
Sommario
Un’occasione mancata per riportare Frankenstein al cinema con profondità. Spettacolare ma freddo, il film di Stuart Beattie si spegne nella sua stessa artificiosità.
