Nessuno mi pettina bene come il vento

In Nessuno mi pettina bene come il vento una scrittrice solitaria, Arianna (Laura Morante), una bambina problematica, Gea (Andreea Denisa Savin), un gruppo di giovani teppistelli, tra cui Yuri (Jacopo Olmo Antinori). Tre solitudini che s’incontrano d’inverno in una località di mare, tre prospettive sul mondo che cambiano. Una storia di contrapposizioni, di rifiuti e istintive affinità.

 

Così Peter Del Monte torna alla regia dopo sette anni, parlandoci di esistenze solitarie segnate da una latente disperazione, personaggi che faticano a trovare un posto nel mondo. La trama che inizialmente può apparire contorta, è in realtà semplice, perfino esile, ma sufficiente a far emergere ciò che conta nel film: l’interiorità dei personaggi. Nessuno mi pettina bene come il vento è un film di silenzi più che di parole, come lo definisce lo stesso regista – ma le parole, quando ci sono, portano spesso un contributo alla riflessione, rovesciando prospettive classiche.

Nessuno mi pettina bene come il vento, il film

Proprio per la sua natura intimista, fatta di emozioni trattenute o poco espresse verbalmente, il film ha bisogno di interpreti abili a definire mondi interiori con la profondità delle espressioni e dei gesti. Di questi vive, grazie all’ottima scelta degli attori: con indiscussi punti fermi  – Laura Morante, da sempre efficace nel tratteggiare donne fragili e insicure che sanno però trovare al momento opportuno una loro forza – gradite conferme – un altro ruolo da introverso per Jacopo Olmo Antinori, già in Io e te di Bernardo Bertolucci – e buoni esordi – Andreea Denisa Savin, dodicenne.

Nessuno mi pettina bene come il vento rende bene quell’inspiegabile istintiva affinità che porta a volte a fidarsi degli sconosciuti più che di chi ci è da sempre vicino, quell’alchimia misteriosa che prescinde da ogni regola – età, contesto di provenienza – e determina un immediato legame tra estranei (qui sia tra Gea e Arianna, che tra Gea e Yuri). La capacità di aprirsi a ciò che non si conosce, esemplificata nell’aforisma di Alda Merini che dà il titolo al lavoro. Capacità che spesso gli adulti perdono, mentre i giovani più facilmente posseggono – è la bambina a “insegnarla” alla scrittrice, adulta curiosa e intelligente, che sa mettersi in discussione. La parte più viva è, dunque, la contrapposizione tra questo elemento vitalistico e spontaneo e la natura fondamentalmente oscura dei personaggi, che trova corrispondenza nell’ambientazione cupa.

Lo sguardo del regista non giudica i protagonisti, ma è disincantato. Sulla famiglia: lontana dall’essere un nucleo in cui trovare comprensione e appoggio, appare invece come luogo di disgregazione e lontananza, non priva di affetti, ma incapace di essere punto di riferimento. Come sull’universo dei ragazzi: portatori di nuove benefiche prospettive, ma anche concentrati di aggressività e rabbia più o meno espresse. Un viaggio introspettivo con momenti anche emozionanti, un invito a recuperare un po’ d’istinto e a lasciarsi, ogni tanto, pettinare dal vento.

      

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