
Viviane completa una trilogia, ed è preceduto da To take a wife e 7 Days, con cui Ronit e Shlomi Elkabetz hanno messo in scena le fasi fondamentali della vita sociale di una donna, in modo a dir poco singolare. I movimenti di macchina, la fotografia, la colonna sonora (quasi inesistente) e la scenografia seguono un minimalismo pieno di rigore. Tutt’altro fanno la regia e la sceneggiatura. I fratelli Elkabetz ci calano in un ambiente innocuo che caricano di significato tramite la scelta di sottomettere lo sguardo dello spettatore a quello dei personaggi. La macchina da presa è sempre posizionata dall’angolazione di uno dei peronaggi mentre osserva un altro. L’occhio dello spettatore non è libero di vagare, ma fastidiosamente dipendente dagli attanti. Ecco che la cattività di cui Viviane cerca di liberarsi, chiedendo disperatamente il divorzio, diventa cifra stilistica e imprigiona anche noi, che sentiamo fisicamente l’impossibilità di muoverci nello spazio del film. La libertà di sguardo ci è negata e ci sentiamo, insieme a lei, prigionieri e dipendenti da decisioni che non possiamo controllare. La sceneggiatura, brillante e arguta, è l’arma che ci allieta la prigionia. I 115 minuti che separano l’inizio dalla fine dell’opera dei fratelli Elkabetz li sentiamo tutti e, stranamente, non è un difetto del film, ma pregio e provocazione. 
Viviane veste di leggerezza una questione di fondamentale importanza. Spoglia di retorica una denuncia necessaria. Ci fa vivere un’esperienza cinematografica diversa.
