Viviane recensione del film di Ronit e Shlomi Elkabetz

VivianeUna stanza spartana, una manciata di personaggi, la fine di una storia d’amore che non è mai esistita, una legge assurda. La vita di Vivane Amsalem, di cui possiamo farci un’idea durante il processo per il suo divorzio, ci sembra spoglia e priva di positività come l’aula da tribunale in cui i personaggi agiscono per tutto il film. Da tre anni la donna cerca invano di ottenere il divorzio dal marito Elisha. Siamo nell’Israele del presente, dove il matrimonio civile non esiste, ma vige soltanto la legge religiosa, indipendentemente dalla comunità di appartenenza dei coniugi e del fatto che possano essere o meno laici. Una legge religiosa che attribuisce tutto il potere al coniuge maschile che è anche il solo a poter concedere il divorzio legale e che lo innalza difatti anche dinanzi la legge civile, poichè non ne esiste alcuna che possa costringerlo nella sua decisione.

 

Viviane completa una trilogia, ed è preceduto da To take a wife e 7 Days, con cui Ronit e Shlomi Elkabetz hanno messo in scena le fasi fondamentali della vita sociale di una donna, in modo a dir poco singolare. I movimenti di macchina, la fotografia, la colonna sonora (quasi inesistente) e la scenografia seguono un minimalismo pieno di rigore. Tutt’altro fanno la regia e la sceneggiatura. I fratelli Elkabetz ci calano in un ambiente innocuo che caricano di significato tramite la scelta di sottomettere lo sguardo dello spettatore a quello dei personaggi. La macchina da presa è sempre posizionata dall’angolazione di uno dei peronaggi mentre osserva un altro. L’occhio dello spettatore non è libero di vagare, ma fastidiosamente dipendente dagli attanti. Ecco che la cattività di cui Viviane cerca di liberarsi, chiedendo disperatamente il divorzio, diventa cifra stilistica e imprigiona anche noi, che sentiamo fisicamente l’impossibilità di muoverci nello spazio del film. La libertà di sguardo ci è negata e ci sentiamo, insieme a lei, prigionieri e dipendenti da decisioni che non possiamo controllare. La sceneggiatura, brillante e arguta, è l’arma che ci allieta la prigionia. I 115 minuti che separano l’inizio dalla fine dell’opera dei fratelli Elkabetz li sentiamo tutti e, stranamente, non è un difetto del film, ma pregio e provocazione. Viviane  2E’ una domanda: come può una donna sopportare la prigionia così a lungo? La sua vita non è un film amaro con una sceneggiatura brillante. Poi ci pensiamo un attimo e capiamo che invece, è proprio così: Viviane si guarda attorno, lotta con tutte le sue forze e ride in faccia all’assurdità della Legge, travestendo la sua tragedia in una commedia.

Viviane veste di leggerezza una questione di fondamentale importanza. Spoglia di retorica una denuncia necessaria. Ci fa vivere un’esperienza cinematografica diversa.

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