Il fascino discreto della borghesia: il film di Luis Buñuel

Il fascino discreto della borghesia

Il fascino discreto della borghesia è un film del 1972 diretto da Luis Buñuel con protagonisti Fernando Rey, Paul Frankeur, Delphine Seyrig, Milena Vukotic, Michel Piccoli, Bulle Ogier, Julien Bertheau, Stéphane Audran e Jean-Pierre Cassel.

 

Pedagogia o esorcismo? Delirio onirico o realtà? Cinismo o oggettività? Sembrerà forse bizzarro analizzare il cinema inquieto di Luis Buñuel, ponendo quesiti di questo calibro. Il film in questione, già nel titolo ingannevole Il fascino discreto della borghesia, ci illumina parodiando delle risposte.

Il fascino discreto della borghesiaIl soggetto della trentesima pellicola del regista spagnolo, è appunto la borghesia, i cui rappresentanti appaiono come un unico manichino tragico, composto da corpi convenzionali che imprigionano anime perverse: Don Rafael, (Fernando Rey), l’ambasciatore dell’irreale repubblica di Miranda, i suoi compari Thévenot (Paul Frankeur) e Sénéchal (Jean-Pierre Cassel), accompagnati dalla signora Thévenot (Delphine Seyrig), concubina segreta di Don Rafael, dalla signora Sénéchal (Stéphane Audran), dalla bella Florence (Bulle Ogier), vassalla dei signori Thévenot, ed infine dal vescovo (Julien Bertheau), futuro giardiniere di casa Sénéchal.

I tre bontemponi, invischiati in un traffico illecito di droga, costantemente in guardia senza mai spalleggiarsi, vagano perduti in nastri di celluloide, rincorrendo il desiderio di poter consumare un pasto in comunione. Durante tutta la pellicola, immagini fallaci danzano intorno alla realtà in veste di macabri incubi, dove le paure più profonde della classe borghese fagocitano il suo fascino discreto, rendendola schiava del proprio subconscio.

Il fascino discreto della borghesiaIl regista del Perro andaluso, gioiello del cinema surrealista, catapulta il suo pubblico in un allucinogeno terzo girone dantesco, quello dei golosi, la cui punizione consiste nel tenere celate le più oscure ambizioni e i più bassi desideri, alla ricerca di un equilibrio fittizio.

L’armonia bramata, raggiungibile attraverso la condivisione del cibo, è soltanto sfiorata durante incredibili viaggi onirici che mai si realizzano. I sogni infatti sollecitano la fantasia dei personaggi con violenza, tirando lentamente fuori gli istinti animaleschi, sintomi di un inguaribile frustrazione.

Il fascino discreto della borghesia, il film

Il burattinaio Buñuel, maneggiando con maestria i fili della trama senza farli intrecciare, riesce a delineare le anamnesi dei personaggi, scelti per mettere in scena una grottesca commedia. In questo contesto, la sceneggiatura sembra parafrasare l’interpretazione dei sogni di Freud, dove la cupidigia, l’intolleranza e l’insoddisfazione appaiono nel sonno come fantasmi di un vissuto irrisolto.

Ciò che più colpisce è forse la capacità del regista di non creare delle aspettative: l’intreccio sospeso e convulso, la fruizione voyeuristica, e il ritmo stonato che caratterizzano il film, rendono impossibile allo spettatore sia di immedesimarsi nei personaggi, sia di sperare nella loro catarsi. Per questo forse la pedagogia Buñueliana viene scambiata per puro cinismo. In realtà ciò che Buñuel vuole lasciar intendere è che la solitudine dei personaggi, di fatto respinta, è in realtà profondamente voluta, rappresentando il vero traguardo.

Nella loro individualità infatti ogni cosa è permessa, ogni azione è priva di vincoli morali, e il patto hobbesiano della civile convivenza viene sacrificato in nome dell’autoaffermazione. Eppure l’emancipazione sociale ed economica dei personaggi sembrerebbe delineare una condizione ideale, che invece viene smentita dalle loro continue ossessioni. Ciò che vivono è un buffo paradosso: intenti a mantenere il fascino discreto, combattono contro i loro istinti primitivi, tenendo separati i due scomparti esistenziali grazie all’ipocrisia. Il quadro che scarica il peso sul chiodo della coscienza, è però troppo fragile per sostenere l’insostenibile…

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