Gruppo di famiglia (ricca, molto ricca) con cadavere, o meglio tanti cadaveri, di ogni tipo, dimensione e soprattutto prezzo. No, non è il plot di un nuovo film di Eli Roth alle prese con la saga di Hostel, ma purtroppo la cruda, spietata e grottesca, oltre ogni immaginazione, realtà di Safari.

Ulrich Seidl racconta, con la dovizia di un illustratore estremamente prodigo di dettagli, un mondo deviato e perverso, dove tutto è possibile, dimostrando che in fondo con i soldi è possibile acquistare tutto, anche il diritto di uccidere un altro essere vivente. Descrive il mondo della cosiddetta “caccia grossa”, sconosciuto e lontano ai più, forse immaginato e rielaborato nella mente in maniera avventurosa, pensando ai romanzi d’avventura di fine ottocento o ai film di Tarzan. Invece ci rivela che si tratta di un vero e proprio supermercato della violenza, dove tutto è riconducibile a un valore in denaro. E così Seidl, con mano ferma e la sapiente ironia di un creatore di immagini  segue alcuni gruppi di facoltosi turisti che tra un’ abbronzatura, una birra e una dormita uccidono ignari animali che hanno avuto la sventura di trovarsi sulla loro strada.

L’autore imbandisce gustosi e grotteschi tableau vivant con i protagonisti reali dei vari massacri, abbigliati con cappelli di sughero e completi coloniali, come se avessero detto loro di travestirsi da cacciatori per la notte di Halloween. Li circonda di teste impagliate e cadaveri imbalsamati che divengono il ricordo storpiato e malinconico di quello che un tempo era la loro vita libera nella savana africana. E a questi piccoli meravigliosi affreschi alterna le loro prodezze sul campo, mostrandoceli in tutta la loro goffezza e presuntuosa idiozia.

Vediamo ragazzine capricciose che sognano di uccidere un okapi, ma che mai (dicono, con disarmante sensibilità) potrebbero sparare a un leone o un ghepardo, obesi che non riescono neanche a camminare o salire su una scaletta, addormentarsi gonfi di birra in un capanno, in attesa di sparare con fucile di calibro così grande che potrebbero abbatterci un aereo, e ancora signore imbellettare che non vedono l’ora di farsi una fotografia con la carcassa sistemata in posa dell’animale da loro assassinato.

Non mancano poi scene cruente, come la macellazione di una giraffa, e la descrizione dell’agonia delle prede che non vengono quasi mai uccise su colpo. E dicevamo che tutto ha un prezzo; si parte dai 250 euro per prede relativamente comuni, come le gazzelle, fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per leoni, elefanti, o specie con pochi esemplari disponibili, rare, per non dire a rischio di estinzione. Si scopre che la maggior parte delle riserve di caccia in Africa, in cui si svolge indisturbata questa mattanza, sono di proprietà di facoltosi occidentali e che i clienti sono imprenditori, dentisti, medici, industriali, avvocati, tutte persone che non si fanno problemi a spendere migliaia di euro semplicemente per il gusto di uccidere. E la gente del posto naturalmente è parte impotente del gioco, messa biecamente a tacere e resa complice con pochi spiccioli. Assistiamo cosi a scene di servilismo e apparente disinteresse, forse più agghiacciante delle stesse uccisioni.

Come ci ha abituato Seidl in altri suoi film, Canicola o Im Keller, le immagini sono splendide, accattivanti, la regia sapiente, il suo gusto per il grottesco ci porta a sorridere, ma poi quel sorriso si paralizza e si congela nella riflessione che quello che stiamo vedendo è tutto vero, che gli assassini sono i nostri vicini di casa. Ci insinua il dubbio che forse anche noi potremmo avere un prezzo, che potendolo pagare non esiterebbero a spararci, per poi appendere la nostra testa impagliata nel loro lussuoso salotto, o semplicemente per farci apparire con loro in un selfie da mostrare con orgoglio agli amici.

Elegante, quanto disturbante, ma necessario.

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