Al Lido capita una cosa curiosa: dopo qualche giorno di proiezioni si perde completamente il senso del tempo. Non si sa più se sia mattina o sera, se siamo al terzo o al decimo giorno di festival, se un titolo sia passato ieri o la settimana scorsa. Ed è proprio in questo limbo sospeso che arriva Kathryn Bigelow, con l’energia di chi rompe l’inerzia e rimette in moto tutto. Otto anni dopo Detroit, la regista premio Oscar torna al cinema con A House of Dynamite, presentato in Concorso all’82ª Mostra del Cinema di Venezia.
Il suo ritorno non è solo un evento, ma una vera e propria scossa: un film che sembra arrivare a dirci che non siamo poi così al sicuro come ci illudiamo, che la Storia bussa sempre con pugni pesanti e che il cinema può ancora fotografarla con precisione chirurgica.
A House of Dynamite: un thriller politico ad alta tensione
La trama, in superficie, sembra appartenere al territorio del cinema catastrofico: un missile nucleare viene intercettato mentre è diretto verso il territorio degli Stati Uniti. Non si sa da dove sia partito, né chi lo abbia lanciato. Inizia così una corsa contro il tempo per individuare il responsabile, disinnescare la minaccia, e soprattutto capire se l’umanità abbia davvero un margine di manovra davanti all’impensabile.
Eppure, a Bigelow non interessa il puro intrattenimento. Non c’è spettacolarizzazione gratuita, non ci sono eroi larger than life. Al contrario, la regista costruisce un’opera chirurgica, che lavora sulla tensione dei silenzi, sugli sguardi contratti, sulla claustrofobia delle stanze del potere. Ogni scelta registica riflette la volontà di mostrare un mondo sull’orlo del collasso, dove le decisioni sono rapide ma mai semplici, e dove il confine tra difesa e autodistruzione si fa sottilissimo. Il risultato è un thriller politico che tiene incollati alla sedia, ma che al tempo stesso lascia un retrogusto amaro e inquietante: quello della plausibilità.

Kathryn Bigelow non è mai stata una regista accomodante, e lo conferma ancora una volta. A House of Dynamite è un film che rifiuta le lusinghe estetiche, le trovate a effetto, le scorciatoie narrative. Il suo sguardo rimane asciutto, diretto, spietato, sempre lucidissimo. E dietro la macchina da presa si percepisce la mano di una cineasta che conosce il peso delle immagini e la responsabilità delle storie che sceglie di raccontare.
La sceneggiatura, solida e precisa, regge perfettamente la tensione per tutta la durata, senza mai concedere pause superflue. Gli attori, un cast corale formato da Idris Elba, Rebecca Ferguson, Gabriel Basso, Jared Harris, Tracy Letts, Anthony Ramos, Moses Ingram, Jonah Hauer-King, Greta Lee, Jason Clarke, offrono interpretazioni di ferro: nessuno sopra le righe, tutti immersi in quel clima di urgenza e terrore trattenuto che rende il film magnetico. Bigelow, del resto, lo ha dichiarato chiaramente: il suo obiettivo era esplorare il paradosso di un mondo che vive nell’ombra costante dell’annientamento nucleare, ma che raramente affronta davvero questo tema. L’eco delle sue parole è palpabile in ogni scena.
Il film che scuote Venezia e lascia il segno
Alla Mostra del Cinema capita ogni anno di vedere opere che raccontano la contemporaneità con sguardi diversi, ma raramente ci si imbatte in un film che riesca a unire con tanta forza contenuto e forma. A House of Dynamite non è solo un film che parla di missili e geopolitica: è una riflessione più ampia sulla vulnerabilità delle società occidentali, sulla fragilità di sistemi che si credono invincibili, sull’illusione di poter controllare l’incontrollabile. E la sua forza sta proprio qui: nell’essere insieme un’opera di intrattenimento e un atto politico, un’esperienza cinematografica avvincente e un monito durissimo. Non stupirebbe affatto se diventasse uno dei titoli più forti del concorso veneziano, capace di mettere d’accordo critica e giuria.

Uscendo dalla sala, la sensazione è quella di aver assistito a qualcosa che ci riguarda da vicino, che non possiamo scrollarci di dosso con facilità. A House of Dynamite non consola, non rassicura, ma scuote. È cinema che non si accontenta, cinema che ha ancora il coraggio di essere “necessario”. In un panorama dove spesso la politica è ridotta a cornice estetica o a semplice sfondo, Bigelow dimostra che si può ancora fare cinema di genere senza rinunciare alla lucidità e alla precisione. E che anzi, proprio un thriller può diventare il terreno ideale per raccontare le paure più profonde del nostro tempo.
Kathryn Bigelow firma un ritorno straordinario. Se l’82ª Mostra del Cinema di Venezia cercava il suo titolo simbolo, quello che saprà restare anche dopo che le luci del festival si saranno spente, è difficile non pensare che lo abbia già trovato.
A House of Dynamite
Sommario
L’obiettivo di Bigelow era esplorare il paradosso di un mondo che vive nell’ombra costante dell’annientamento nucleare, ma che raramente affronta davvero questo tema.