Visto in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, nella suggestiva Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica, 40 secondi di Vincenzo Alfieri è una di quelle opere che ti costringono a restare seduto anche dopo i titoli di coda, in silenzio, con un peso che non è solo dolore, ma anche consapevolezza. Presentato all’interno del Concorso Progressive Cinema, il film nasce dall’omonimo libro di Federica Angeli e si propone come una ricostruzione asciutta, a tratti quasi documentaria, delle ventiquattr’ore che precedono l’omicidio di Willy Duarte Monteiro, il ventunenne capoverdiano ucciso a Colleferro, nella notte del 6 settembre 2020, mentre tentava di difendere un amico.
Alfieri sceglie di non cedere al sentimentalismo, ma di affidarsi a un linguaggio che alterna tensione e contemplazione, cercando di restituire non solo il fatto, ma il clima che lo precede. È un film che cerca il senso nascosto della violenza, la catena invisibile di sguardi e atteggiamenti che, in una notte qualunque, possono trasformarsi in tragedia. 40 secondi non è solo la misura temporale di un pestaggio, ma il simbolo di tutto ciò che precede e segue quel tempo sospeso: un istante che contiene la banalità del male e il suo potere di distruzione.
Fin dall’inizio Alfieri imposta un racconto che si muove su più piani, costruendo una rete di incontri e situazioni apparentemente casuali. Ogni gesto quotidiano diventa un indizio di ciò che accadrà. C’è un realismo che si avvicina alla cronaca, ma la messa in scena lo trasforma in qualcosa di più profondo: una riflessione sulla responsabilità, sull’inerzia e sulla paura che attraversa la nostra società.
Una regia che scava nei volti: l’estetica del reale e il magistero pasoliniano
Il grande merito di 40 secondi è la regia di Alfieri, capace di alternare la freddezza dell’osservazione al calore dell’empatia. La macchina da presa è quasi sempre vicinissima ai volti, come a volerli decostruire. Alfieri ci entra dentro, li guarda da dietro la pelle, li mette a nudo per mostrarne le contraddizioni, la rabbia trattenuta, la paura di essere deboli. Questo lavoro minuzioso di introspezione visiva costruisce un film in cui ogni movimento di macchina è pensato per restituire allo spettatore la fisicità di quella tensione che esploderà di lì a poco.
Quando la storia si concentra su Willy, invece, la regia cambia tono: la camera si apre, il respiro si allarga, e la luce si fa più naturale, l’atmosfera operosa e piena di speranza. È come se Alfieri costruisse due film dentro lo stesso racconto: da un lato l’inferno della violenza, dall’altro la possibilità di un’umanità diversa, fatta di lavoro, amicizia e sogni semplici. In questa contrapposizione si avverte chiaramente la lezione di Pier Paolo Pasolini, non tanto citato quanto riletto e reinterpretato. C’è in Alfieri una stessa tensione verso il reale, lo stesso desiderio di capire “come sia possibile” un tale orrore, senza mai compiacersene.
Il lavoro sugli attori è un altro punto di forza. Accanto ai volti già noti di Francesco Gheghi e Francesco Di Leva, spiccano i giovani selezionati attraverso lo street casting, che portano sullo schermo un’energia ruvida, istintiva, non addomesticata. La loro presenza conferisce autenticità e potenza al racconto, trasformando il film in un vero esperimento di cinema del reale. Alfieri li dirige con attenzione quasi documentaristica, lasciando emergere le sfumature di ciascun personaggio senza giudicarlo apertamente, ma sicuramente non assolvendo.
Anche dal punto di vista tecnico, 40 secondi è un film curatissimo. La fotografia gioca con il contrasto tra le ombre delle strade e le luci calde dei luoghi familiari, mentre la colonna sonora si mantiene discreta, accompagnando i momenti di maggiore intensità senza mai sovrastarli. Il risultato è un equilibrio raro tra forma e sostanza, tra estetica e verità emotiva.
C’è qualcosa, in questo film, che ricorda le operazioni di cinema civile degli anni Settanta, ma aggiornate alla contemporaneità: un lavoro di ricostruzione certosina che non cerca solo la verosimiglianza, ma un senso morale. In questo senso, la produzione Eagle Pictures sembra proseguire un percorso già intrapreso con film come Il ragazzo dai pantaloni rosa, in cui la tragedia vera diventa occasione per una riflessione collettiva.
Tra emozione e retorica: il coraggio e i limiti di 40 secondi
In alcuni momenti Alfieri sembra farsi prendere troppo dal dolore, indugiando sulle emozioni fino a renderle quasi programmatiche. Alcune scelte narrative, come quella di inserire nel finale la testimonianza dei fratelli Bianchi, risultano incomprensibili o, quantomeno, discutibili: un gesto che sposta l’attenzione dall’elaborazione del dolore alla cronaca giudiziaria, rischiando di indebolire la forza simbolica del racconto.
Eppure, anche in questi limiti, il film conserva la sua onestà. 40 secondi è un’opera che si espone, che non cerca scorciatoie né consolazioni, ma prova a raccontare un dolore collettivo con rispetto e lucidità. Nel finale, quando la storia torna a Willy e alla sua figura luminosa, la pellicola ritrova il suo cuore più autentico: quello di un ragazzo che rappresenta la parte migliore di un Paese spesso distratto, quella che lavora, che sogna, che tende la mano invece di colpire.
Il film si chiude con un
senso di impotenza, ma anche di urgenza. Alfieri non pretende di
dare risposte, ma ci obbliga a fare i conti con una domanda:
come può la violenza esplodere così, in quaranta secondi, dentro
una notte qualsiasi?. Ed è in questa domanda che il film
trova la sua ragion d’essere.
Nonostante qualche passaggio retorico, la forza della pellicola resta intatta e ci riporta al centro della questione morale e sociale della nostra epoca. La banalità del male, di cui parlava Hannah Arendt, diventa qui un concetto cinematografico: un movimento di macchina, un respiro trattenuto, un silenzio prima del colpo.
Ciò che rimane di 40 secondi è un sentimento di perdita, ma anche di consapevolezza. È un film che chiede rispetto, che invita al ricordo e alla riflessione, e che ci ricorda, con una lucidità dolorosa, quanto sia sottile la linea che separa la normalità dalla barbarie. Alfieri non cerca di consolare, ma di capire. E nel farlo, consegna al pubblico un’opera imperfetta ma profondamente umana, capace di trasformare la cronaca in cinema e il cinema in memoria.
40 secondi
Sommario
Alfieri cerca di capire. E nel farlo, consegna al pubblico un’opera imperfetta ma profondamente umana, capace di trasformare la cronaca in cinema e il cinema in memoria.