C’è qualcosa di ipnotico e profondamente disturbante in In a Violent Nature, l’opera prima di Chris Nash che ha fatto parlare di sé fin dal Sundance 2024. A prima vista sembra un omaggio ai classici slasher di fine anni ’70, un film di sangue e boschi, di giovani ignari e mostri risorti. Basta però immergersi nei primi minuti di visione, in cui la macchina da presa si muove lenta tra gli alberi, accompagnando un corpo che riemerge dalla terra, per capire che il regista canadese non vuole imitare Venerdì 13: vuole sezionarlo dall’interno, riportando il genere alla sua brutalità essenziale.
La scelta più radicale è proprio quella che definisce il film: lo sguardo del killer. Per gran parte della durata seguiamo Johnny, un essere mostruoso e immortale, attraverso la sua prospettiva. Non ci sono battute, ironia né commenti metacinematografici. Solo passi pesanti, il rumore degli scarponi che schiacciano le foglie, il suono sordo dei corpi trascinati, e la sensazione di essere intrappolati nella routine della morte. Nash elimina il filtro dello spettacolo e ci costringe a condividere la monotonia del male, quella ripetitività quasi burocratica dell’uccidere. Johnny non prova rabbia né piacere: sembra solo stanco, come se fosse condannato a ripetere un rito senza fine.
Un’esperienza sensoriale
La forza di In a Violent Nature non risiede nella storia, ma nella sua costruzione sensoriale. Nash abbandona qualsiasi colonna sonora tradizionale e lascia spazio solo ai rumori del bosco e alle musiche che provengono dalle radio dei ragazzi. Il silenzio, interrotto da passi, fruscii e mormorii lontani, diventa la vera colonna sonora del film. Ogni suono è calibrato per amplificare la tensione: lo scricchiolio di un ramo, il colpo secco di una pala, il respiro ovattato dietro una maschera.
Girato in formato 4:3, il film chiude letteralmente lo spazio visivo, trasformando la foresta in un condotto soffocante di alberi e nebbia. La macchina da presa segue Johnny di spalle, a volte da molto vicino, altre lasciandolo camminare come un’ombra che attraversa un paesaggio quasi alieno. C’è qualcosa di videoludico in questo dispositivo – un po’ Alien: Isolation, un po’ Silent Hill – ma Nash non lo usa per spettacolarizzare: lo impiega per spogliare lo spettatore di qualsiasi controllo.
Così, in questa esperienza di immersione pura, lo spettatore diventa un osservatore impotente, trascinato nella lentezza del male. Ogni omicidio, spesso mostrato in un solo piano sequenza, è più disturbante per la sua durata che per la sua brutalità.
L’orrore come routine
Il film si apre con la profanazione di una tomba nascosta nel bosco. Un gruppo di ragazzi, in vacanza, trova una collanina tra i resti di una torre di osservazione crollata. Non sanno che quell’oggetto custodisce la pace di un’anima vendicativa. Rubandola, risvegliano Johnny, un’entità che non è più umana ma neppure del tutto spettrale: un corpo putrefatto che torna in vita per recuperare ciò che gli è stato tolto. Da quel momento, la vendetta è meccanica, inevitabile.
Ogni uccisione è un atto rituale, preparato con precisione e mostrato con una lentezza quasi sacrale. Johnny incide il nome della vittima su una medaglietta dopo ogni delitto, come a prolungare il gesto oltre la carne. Non c’è adrenalina, non c’è climax: solo la freddezza del gesto ripetuto. È un modo per spogliare lo slasher dei suoi cliché – le battute, la competizione tra personaggi, la corsa alla sopravvivenza – e lasciarci soli, letteralmente, con il mostro.
Il mito, la colpa, il silenzio
Dietro la figura di Johnny si nasconde una leggenda, raccontata da una sopravvissuta a un’altra sopravvissuta: sessant’anni prima, un delitto atroce aveva generato la sua maledizione. La collana, che in vita apparteneva alla madre, è l’unico oggetto che ancora lega la sua anima alla terra. Finché nessuno la tocca, Johnny resta sepolto sotto il terreno. Ma il gesto incauto di quei ragazzi lo risveglia e, come in una maledizione collettiva, tutto il paese sa che è meglio non parlarne, non sfidarlo, non violare il suo riposo.
Il film diventa così un racconto sul trauma e sulla responsabilità condivisa. Non è solo Johnny a essere una vittima di violenza: è la comunità stessa che lo ha generato, che preferisce dimenticare, che lo lascia dormire piuttosto che affrontare ciò che rappresenta. Il finale, interamente ambientato dentro un’auto, spiazza per la sua staticità. Dopo tanta brutalità, il film si chiude in silenzio, tra due generazioni di sopravvissute che si parlano senza guardarsi davvero. È un momento di ammissione e di resa, un tentativo di interrompere il ciclo, anche se il terrore non svanirà mai del tutto.
La giovane Kris continuerà per sempre a guardare verso i boschi, perché ciò che è stato visto non si dimentica. L’orrore di Nash non è catarsi, ma una condanna alla memoria.
Lo slasher come memoria collettiva
Con In a Violent Nature, Chris Nash restituisce dignità a un genere spesso ridotto a formula, ricordandoci che lo slasher è nato come rito, non come spettacolo. Invece di cercare l’originalità nei colpi di scena, la trova nella forma: nello sguardo, nel suono, nella lentezza. E, paradossalmente, più il film diventa essenziale, più si avvicina all’origine del terrore.
Johnny, con i suoi scarponi pesanti e il suo passo inesorabile, non è solo un mostro: è la manifestazione di ciò che resta quando la violenza diventa abitudine. Un orco che cammina in mezzo ai resti della civiltà, tra foglie, sangue e silenzio. Nash non gli concede redenzione, né spettacolo. Solo la consapevolezza che, finché continueremo a guardare altrove, l’orrore non smetterà mai di camminarci accanto.
In a Violent Nature
Sommario
Con il suo punto di vista inedito e un uso radicale del silenzio, Chris Nash trasforma l’orrore in una meditazione sulla violenza, restituendo allo slasher la sua essenza più primordiale.