Rashomon è il film culto del 1050 di Akira Kurosawa con protagonisti Toshirô Mifune, Machiko Kyô, Masayuki Mori, Takashi Shimura, Minoru Chiaki, Kichijiro Ueda, Fumiko Honma.
Anno: 1950
Regia: Akira Kurosawa
Cast: Toshirô Mifune, Machiko Kyô, Masayuki Mori, Takashi Shimura, Minoru Chiaki, Kichijiro Ueda, Fumiko Honma.
Negli anni ’50 un vento nuovo cominciò a soffiare da Oriente investendo la cinematografia mondiale: un regista sconosciuto come Akira Kurosawa riuscì a presentare al Festival del Cinema di Venezia, una delle rassegne cinematografiche più prestigiose al mondo, il suo ultimo film intitolato Rashomon. Un film rivoluzionario per quanto riguarda la scrittura narrativa che non segue un ordine cronologico predefinito né una rigida gerarchia: il film ha scardinato uno dei precetti chiave del cinema classico aprendo le porte alla disomogeneità temporale tipica del cinema moderno (la Nouvelle Vague ne è un esempio).
Rashomon trae spunto da un racconto dello studente ventitreenne Ryūnosuke Akutagawa che, dopo una delusione d’amore, pubblicò nel 1915 su una rivista un suo racconto breve intitolato proprio come il film: Rashomon. Solo nel 1922 scrisse invece un racconto completo intitolato “Nel bosco” che, fino ad oggi, è considerato il capolavoro della sua produzione. Kurosawa prese spunto da quest’ultimo ampliandolo però in alcune parti- perché altrimenti, secondo lui, il film risultava incompleto- e modificandone il finale, troppo nichilista nell’originale e più ottimista (forse troppo) nella versione cinematografica.
Rashomon riflette maestosamente sulla relatività e sulle innumerevoli facce che la verità mostra al mondo; e lo fa in chiave storica, calando i suoi personaggi nel Giappone medievale e feudale.
Durante una giornata uggiosa, tre uomini (un monaco, un boscaiolo e un comune passante) si fermano a commentare un cruento fatto di cronaca avvenuto qualche tempo prima: un samurai è stato ucciso da un brigante che ha persino abusato di sua moglie. La storia è raccontata da quattro testimoni che forniscono quattro versioni totalmente differenti dei fatti, e tra questi troviamo le voci del brigante stesso, la moglie del samurai e suo marito (che comunica solo attraverso un medium) e, infine, un narratore. Le versioni sembrano totalmente diverse l’una dall’altra e discostano vistosamente tra loro e sono raccontate attraverso l’uso di una serie di flashback man mano che i vari personaggi- il bandito, la moglie del samurai, la vittima e l’anonimo boscaiolo- procedono con la narrazione.
Le prime tre versioni sono fornite dal monaco che era stato l’ultimo testimone ad aver visto vivi i coniugi prima della tragica vicenda; è il boscaiolo che smentisce queste versioni e fornisce, infine, la sua che non è comunque completamente attendibile. Alla fine le quattro versioni sono raccontate da un comune cittadino mentre tutti insieme attendono la fine del temporale (ecco che la vicenda si ricollega con l’inizio) riparandosi sotto la porta Rashomon, che delimita a sud la città di Kyoto.
Le influenze e i
debiti di Kurosawa verso un altro modo di concepire e fare cinema
sono notevoli, infatti il regista stesso dichiara che una delle sue
fonti d’ispirazione primaria è stato proprio il cinema muto, che ha
cercato di ricreare (almeno nelle dinamiche) grazie a delle
scenografie minimaliste e a un continuo processo di semplificazione
delle scene, visto che- sempre secondo la sua opinione- il sonoro
tendeva a moltiplicare le difficoltà. Molto forte e
determinante è, allo stesso tempo, il ruolo della luce:
Kurosawa avrebbe voluto utilizzare soltanto la luce naturale come
fonte d’illuminazione ma, essendo troppo fioca, preferì sostituirla
con degli specchi che “illuminavano” i volti degli attori
inquadrati. Secondo alcuni critici (Tadao Sato, Nda) l’anomalo uso
della luce nel film ripropone i temi del male e del peccato, mentre
invece secondo altri (K.I.McDonald) l’illuminazione ripropone il
tipico binomio manicheo bene/male: la luce indica la ragione, le
tenebre il male e l’impulsività.
La struttura anti-narrativa del film, che procede per flashback e frammenti senza rispettare nessuna consecutio temporum, ha rivoluzionato il modo di concepire e fare cinema fino a oggi, influenzando non solo alcuni registi che ne hanno realizzato dei remake (più o meno pregevoli) come quello realizzato da Martin Ritt nel 1964, L’Oltraggio, un western con protagonisti Paul Newman ed Edward G. Robinson; oppure il nostrano Mario Bava – re dell’horror gore – che diresse nel 1969 una versione italiana in chiave comico erotica intitolata “Quante volte… quella notte” fino ad arrivare a pellicole più contemporanee, come il bellissimo e poetico Hero (2002), distribuito nelle sale americane e poi mondiali grazie alle pressioni di Quentin Tarantino (appassionato dei film cinesi di genere wuxiapian). Ma nemmeno la televisione è rimasta immune al richiamo di Kurosawa: perfino un longevo serial tv come CSI-Crime Scene Investigation ha omaggiato il film del maestro giapponese attraverso un episodio della sesta stagione intitolato Rashomama e riprendendo la decostruzione cronologica e l’uso dei flashback per esprimere una propria versione, relativistica, della verità.