Alexander ascolta musica tradizionale giapponese. Ha indossato un kimono sul cui dorso sono effigiati i simboli Yin e Yang, bene e male. Come aveva promesso in una preghiera, per scongiurare la catastrofe nucleare annunciata, offre in pegno tutto ciò che possiede, e appicca fuoco alla propria abitazione, agendo come samurai silenzioso che ordisce un harakiri salvifico, sacrificando tutto. Questo accadeva in “Sacrificio”, ultimo lungometraggio di Andrej Tarkovskij.

 

Il regista sovietico ha più volte dichiarato il proprio profondo interesse per alcuni aspetti della cultura giapponese, nonché per alcuni cineasti nipponici: Kurosawa in testa, ma anche Mizoguchi e Ozu.

Si tratta dunque di un aspetto rilevante dell’opera del cineasta sovietico, ma ancora scarsamente analizzato. Sarebbe dunque interessante esplorare, anche per linee essenziali, i casi in cui questa influenza di certa cultura giapponese -cinematografica e non- si fa scoperta, e in che modo si cali nello stile e nella poetica tarkovskijana.

Si potrebbe prendere come esempio quello che da molti è considerato il capolavoro del cineasta sovietico: Andrej Rublev (1966), in cui appaiono delle somiglianze piuttosto marcate con delle situazioni di Rashomon (1950), il film che rivelò Kurosawa alle platee occidentali, ma anche con I sette samurai (1954), in particolare nella sequenza dell’assedio tartaro della città di Vladimir.

La trama di Rashomon prende avvio da questa situazione: tre uomini si riparano dalla pioggia presso il tempio del dio Rasho. Gli uomini narrano poi l’uno all’altro di un fatto di sangue avvenuto recentemente, ma in varie versioni, cambiando di volta in volta la persona responsabile del delitto, secondo più punti di vista, fino a non poter dire quale dei racconti risponda alla realtà dei fatti. L’incipit di Andrej Rublev, invece, è costituito dalla memorabile sequenza in cui un uomo tenta e riesce, anche se per poco, a levarsi in volo su un rudimentale aerostato. Dopo questo prologo, sganciato dalla vita del pittore di icone russo di cui il film racconta, è la volta del primo EPISODIO che ha a che fare direttamente con la vita di Rublev, intitolato “Il buffone”.

Vi sono tre monaci, Andrej Rublev, Daniil il Nero e Kirill, che, usciti dal monastero della Trinità, sono in cammino verso Mosca, dove intendono trovare lavoro come pittori di icone. Un temporale improvviso li costringe a ripararsi in una isbah dove un nutrito gruppo di contadini sta assistendo all’irriverente esibizione di un giullare: una satira scatenata dei nobili Boiardi e dei Pope, ovvero autorità politica e religiosa.

Poco dopo, il giullare, che è stato denunciato, verrà arrestato dalle guardie del Principe, sotto lo sguardo turbato di Andrej.

Già da qui si delinea uno dei temi fondamentali del film: il rapporto tra l’arte e il potere, ed è proprio questo primo episodio che Andrej vive come turbamento della propria coscienza di uomo e artista.

La situazione di base esaminata è identica sia nel film del maestro nipponico che in quello di Tarkovskij: in entrambi, tre uomini cercano riparo dalla pioggia, ed è proprio da qui che si sviluppa l’azione drammatica e vengono messi in luce i temi del film, è proprio da qui che si attiva il racconto.

Come scriveva De Baecque, nei film di Tarkovskij la pioggia attiva alcuni momenti dei film, è il mezzo attraverso il quale si rilancia il racconto, o si entra in una dimensione onirica.

Nei film di Tarkovskij è fortemente presente l’acqua, che sia pioggia, pozzanghera o fiume. In qualsiasi forma si trovi, essa si carica di significati profondi: sempre in Andrej Rublev, l’acqua è simbolo di rigenerazione per il giovane Boriska che trova sotto un temporale l’argilla necessaria a fondere una campana. Ma nel film l’acqua è anche elemento che “accoglie”, come accade con la donna pagana che sfugge alle autorità religiose nuotando nel letto di un fiume, o col cadavere del giovane pittore apprendista ucciso dai tartari durante l’assedio della città di Vladimir.

Altrove, come nel film Lo specchio (1974), l’acqua è spesso associata da Tarkovskij alla figura materna, come elemento generatore di vita.

Circa la ricorrenza di questo elemento nella sua opera, il regista ha affermato: “Ho usato l’acqua perché è una sostanza molto viva, che cambia forma continuamente, che si muove. È un elemento molto cinematografico. E tramite essa ho cercato di esprimere l’idea del passare del tempo e del movimento del tempo.”

È significativo che tra i corsi d’acqua tanto numerosi nell’opus tarkovskijano manchi pressoché del tutto il mare, fatte salve le inquadrature dell’oceano “pensante” di Solaris e l’incipit di Sacrificio. È il regista stesso a spiegarcene il motivo, rendendo scoperta un’altra eredità della cultura giapponese: “L’acqua, i ruscelli, i fiumiciattoli, mi piacciono molto, è un’acqua che mi racconta molte cose. Il mare, invece, lo sento estraneo al mio mondo interiore perché è uno spazio troppo vasto per me. […] A me, per il mio carattere, sono più care le cose piccole, il microcosmo, piuttosto che il macrocosmo. Le enormi distese mi dicono meno di quelle limitate. Forse per questo amo molto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti della natura.”

L’affermazione di Tarkovskij può essere ricondotta a un concetto fondamentale dell’estetica giapponese, quella del wabi. Tale termine ha, in giapponese, i significati “solitario”, “isolato”, “semplice”, “effimero”, “sobrio”, ed è messo in relazione con tutte le espressioni artistiche, dalla poesia all’architettura, che richiamino, appunto, i concetti di piccolezza, finitudine, singolarità.

L’estetica wabi si richiama a concetti di ascendenza buddhista che riguardano il trascendente e che fanno appunto leva sulla limitatezza e la transitorietà dell’esistente a fronte dell’infinito, ovvero il fueki-ryuko: impermanenza ed eternità, che sono gli elementi centrali dell’opera di Matsuo Basho, (che Tarkovskij lesse più o meno all’epoca in cui stava per lavorare ad Andrej Rublev), il più noto e influente poeta giapponese.

Per questi motivi, nell’arte giapponese è frequente il ricorso a elementi semplici e isolati.

Nella poesia giapponese, ad esempio, è facile incontrare espressioni come “un tempio” o “un ramo di ciliegio”, ma quasi mai si parla di più templi o di ciliegi.

A questo proposito cito un passo dell’Hagakure-Il codice dei samurai, di Yamamoto Tsunetomo:

“ ‘Sotto alla fitta neve dell’ultimo villaggio,/ieri notte sono sbocciati numerosi rami.’ In questa poesia sui pruni, c’era una ridondanza: ‘numerosi rami’; questa fu la variante: ‘un ramo solo è sbocciato’. Tale variante allude al gusto del wabi”.

Ritorna utile in tal senso anche una citazione da Note del Guanciale, di Sei Shonagon: “In verità, tutte le cose piccole sono belle”.

È proprio nella singolarità che si può scorgere il mistero della vita, è proprio all’arte che spetta, adornianamente, di far scorgere l’universale e l’assoluto nel particolare, fosse anche il più piccolo, ed è proprio ciò cui Tarkovskij, con l’attitudine contemplativa dei suoi piani sequenza, e con tutta la componente fortemente spirituale del suo cinema, sembra anelare.

Scrive il regista, nel suo libro “Scolpire il tempo”: “L’immagine [cinematografica] non è questo o quel significato espresso dal regista, bensì un mondo intero che si riflette in una goccia d’acqua, in una goccia d’acqua soltanto”.

Forse è ciò che accade negli haiku giapponesi: la possibilità di cogliere il mondo intero riflesso in una goccia d’acqua, tutto il mistero della vita in un evento o una sensazione singolari descritti in tre versi di 5-7-5 sillabe, allo stesso modo che un solo ramo di ciliegio è unico, irripetibile, ma reca in sé il mistero di tutti gli altri. Ma vediamo ancora le parole del regista su questo argomento: “Amo molto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti della natura. Cercano di concentrarsi su uno spazio ristretto e di vedervi il riflesso dell’infinito.”

La macchina da presa Tarkovskijana cerca il miracolo dell’evento quotidiano, quello che avviene tacitamente, di nascosto, come la figlia dello Stalker nel film omonimo, che sposta gli oggetti tramite telecinesi. O cerca, ancora, la meraviglia intrinseca degli elementi naturali, dai corsi d’acqua, agli alberi, alla terra, così ricorrenti nella sua opera, quasi volesse di essi carpire il mana nascosto, e lo fa con lente panoramiche, con uno sguardo contemplativo che fa pensare, a tratti, a certo Ozu o a Mizoguchi.

Tarkovskij sostiene che per pervenire a questa visione “contemplativa” della realtà che sa cogliere in un oggetto particolare la manifestazione di qualcosa di universale, occorre “coltivare la purezza, finezza, la compattezza dell’osservazione della vita per così dire allo stato puro degli haiku giapponesi”, quasi come si trattasse di un primo sguardo sulle cose del mondo, quando esse non hanno perso la loro aura, il loro mana, e non sono ancora classificate, ma ancora da scoprirsi.

Un cinema di così alta ispirazione spirituale e di elevata attitudine contemplativa viene da un regista che aveva sperimentato per tutto l’arco della sua parabola esistenziale e artistica, uno degli aspetti più raccapriccianti dell’orrore novecentesco (le pressioni e l’ostracismo della burocrazia del totalitarismo sovietico), che negando la vita afferma la distruzione e l’inquietudine, non concedendo alcuno spazio alla contemplazione e alla dimensione spirituale, e forse neppure alla stessa arte.

Il cinema di Tarkovskij, dunque, viene ancora a costituire un absurdum, come assurdo era l’harakiri di Alexander in Sacrificio, eppure è missione che va tentata.

Tarkovskij, che dichiarava di rivedere I sette samurai ogni qual volta girava un nuovo film, (così come Kurosawa si dichiarava grande estimatore di Solaris e Andrej Rublev), si arricchì enormemente di questa matrice culturale giapponese, poiché essa si conciliava con la cifra fortemente spirituale del suo cinema. Un cinema spirituale, ma attaccato alla terra e alla bellezza dell’immanenza, in cui non è dato vedere frequentemente il cielo, se non per il suo riflesso in una pozza d’acqua. Come a voler dare fueki-ryuko, impermanenza ed eternità.

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