Non siamo più vivi (All of Us Are Dead), recensione della serie tv coreana Netflix

All of Us Are Dead è la tua nuova ossessione coreana: cruenta ma dalle grande emozioni

Non siamo più vivi (All of Us Are Dead)

Non siamo più vivi è la serie più bingeable attualmente disponibile su Netflix: con le sue 12 ore di minutaggio totale, ogni episodio è un viaggio indimenticabile nelle pieghe di un sottogenere ormai rivitalizzato, non senza un buon quantitativo di emotività risonante. Nel cast Park Ji-hu, Yoon Chan-young, Cho Yi-hyun, Lomon, Yoo In-soo, Lee Yoo-mi, Kim Byung-chul, Lee Kyu-hyung, e Jeon Bae-soo.

 

Non siamo più vivi: lo slancio che lo zombie-movie necessitava

Probabilmente l’evento apocalittico a cui stiamo tutti collettivamente sopravvivendo ha dato la necessaria iniezione di adrenalina di cui lo zombie-movie aveva avuto bisogno per oltre un decennio; prima che arrivasse Train to Busan, l’ultima volta che il genere zombie è stato testimone di una tale revisione è stato quando Edgar Wright ha suggerito che poteva essere divertente. Non siamo più vivi (All of Us Are Dead) non è la serie che porterà il genere al livello successo, ma costituisce sicuramente un tassello significativo in termini di grande risonanza conferita a un sottogenere amato ma, a tratti, dimenticato.

Durante i primi quattro episodi la serie gioca, in gran parte, secondo le regole tipiche del sottogenere, o così ci fa pensare, fino al quinto episodio, che realmente apporta modifiche sostanziali alla narrazione: ecco che Non siamo più vivi (All of Us Are Dead) prende la spinta necessaria per fornirci una rappresentazione spaventosamente credibile della pandemia di coronavirus, migliorando ulteriormente una materia filmica dalle grandi premesse. Eravate già investiti, ora allacciate le cinture che siamo in dirittura d’arrivo, sembra suggerirci lo show.

La serie mostra particolare focus narrativo sulle disuguaglianze sociali che sono state ulteriormente esposte dalla pandemia e, allo stesso tempo, offre un forte commento sulla tossicità dell’esperienza adolescenziale. È, dopo tutto, ambientato all’interno del più darwiniano di tutti i campi da gioco, e il più gelido di tutti gli ingranaggi sociali: la scuola superiore. È, sostanzialmente, uno show costantemente avvincente e immediatamente bingeable che si attiene al programma e prosegue poi accumulando punti bonus anche per le attività extracurricolari.

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Non siamo più vivi: un mix perfetto di azione ed emotività

Ciò che distingue veramente Non siamo più vivi (All of Us Are Dead) da altri prodotti sui generis sono i protagonisti della serie: l’eterogeneo equipaggio di sopravvissuti non sono i classici personaggi armati di pistola, che brandiscono il machete e sono esperti ad uccidere gli zombie, ma comuni adolescenti che devono letteralmente afferrare l’oggetto più vicino a loro e ricavarne frettolosamente un’arma. Partendo proprio dalle scelte di cast, la serie si allontana enormemente dal percorso tradizionale che prevede di mantenere un’ambientazione da apocalisse zombie comicamente caotica; al contrario, i registi Lee JQ e Kim Nam-su non evitano di affrontare il peso emotivo che la morte e il caos portano con sé.

Viviamo il dolore paralizzante della perdita reiterata di amici, compagni di classe e insegnanti, messo in primo piano dalla scrittura affilata dello sceneggiatore Chun Sung-Il, che caratterizza attentamente questi adolescenti, perno di un racconto in cui il body horror ha una deriva emotiva, intrinsecamente connessa con le trasformazioni che il passaggio adolescenziale porta con sé. Il miglior esempio di questo si vede quando entriamo nell’analisi della zombificazione o “trasformazione” degli umani: un’inquadratura solitamente riservata a soddisfare la percentuale di orrore è capovolta per giocare con lo struggimento emotivo; al posto di una trasformazione affrettata siamo di fronte a un processo prolungato, in cui l’orrore deriva dallo zombie ormai morto che si riconcilia con la perdita della sua umanità, spesso proprio di fronte ai suoi compagni di classe.

La narrazione stratificata non va comunque mai a sovrastare sequenze d’azione ad alto tasso adrenalinico, jump scares e VFX gore ben eseguiti. Portando a compimento la promessa fatta allo spettatore già dal titolo, anche dal punto di vista tecnico viene rimarcata la desolazione che l’apocalisse zombie porta con sé: quella che inizia come una scuola illuminata da colori vivaci, alla fine si trasforma in un luogo nauseante e tedioso, con la saturazione dei colori che va riducendosi, man mano che il virus si diffonde.

In definitiva, in un genere che brulica del bisogno imperituro da parte di Hollywood di fornire il perfetto racconto post-apocalittico su un assassino zombie tipicamente monolitico, la Corea del Sud ha coraggiosamente proposto una storia di sopravvivenza. Oscillando tra vivi e non morti, lo show vive del messaggio che trasmette: la resistenza non significa sempre forza, a volte nasce da ripetuti atti di gentilezza.

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RASSEGNA PANORAMICA
Agnese Albertini
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