Pachinko – La moglie coreana è senza dubbio una delle creazioni televisive più emozionanti, audaci e significative degli ultimi anni. Attraverso il toccante racconto di un’epopea familiare, l’opera presenta con straordinaria dignità e cura un frammento cruciale della storia della Corea del Sud. Tra vita e morte, amore e conflitto, coraggio e perdita, Pachinko racchiude il dolore e la memoria di un popolo che ancora oggi continua a lottare per preservare le proprie radici e la propria voce.
Ed è proprio per la sua profonda e autentica bellezza e i nobili intenti che, fin dal suo debutto, il pluripremiato dramma storico di Apple TV+, tratto dall’intenso bestseller del 2017 di Min Jin Lee, ha incantato ed emozionato sia il pubblico che la critica internazionale. Ora, dopo oltre due anni di attesa, torna con la tanto sospirata seconda stagione. Prodotta da Media Res e ideata dalla scrittrice e showrunner americana Soo Hugh, nota per la curiosa serie antologica The Terror (co-prodotta da Ridley Scott e tratta dal bestseller di Dan Simmons), la seconda stagione di Pachinko è composta da otto episodi di circa un’ora ciascuno (come la prima stagione) ed è disponibile sulla piattaforma streaming di Apple dal 23 agosto 2024.
Quattro generazioni per raccontare la storia di un Paese
Dalla piccola Busan del 1915 alla caotica e luminosa Tokyo del 1989, attraversando la violenta occupazione giapponese, la Seconda Guerra Mondiale, la guerra di Corea e la ripresa economica degli anni ’80, Pachinko accompagna il pubblico in un intenso viaggio che, attraverso la saga familiare di quattro generazioni, racconta la tragica storia di tutto il popolo coreano. La seconda stagione, diretta da Leanne Welham, Arvin Chen e Sang-il Lee, riprende il filo del racconto lasciato in sospeso (qui il recap dettagliato della Stagione 1 di Pachinko), intrecciando nuovamente le vicende ambientate nell’Osaka del 1989 con quelle del 1945, nel pieno della guerra.
Dopo l’arresto del marito Baek Isak (Steve Sanghyun Noh), Sunja (Kim Min-ha) si assume la responsabilità di sostenere la famiglia vendendo kimchi al mercato, mentre cresce i suoi figli, Noa e Mozasu, con l’aiuto della cognata Kyunghee (Jung Eun-chae). Tuttavia, gli anni ’40 in Giappone si rivelano ancora più difficili dei precedenti: mentre reperire il cavolo per preparare il kimchi diventa sempre più arduo, il paese vive nella crescente paura di un attacco imminente da parte dell’esercito americano. In questa situazione critica, Sunja – non senza esitazione – accetta l’aiuto del ricco Koh Hansu (Lee Minho), ex amante e padre biologico del figlio maggiore, per mettere in salvo tutta la famiglia, allontanandola dalle città che sarebbero presto diventate teatri di guerra. Lasciandosi i bombardamenti alle spalle, Sunja, Kyunghee, Noa e Mozasu si trasferiscono nella tranquilla campagna giapponese, nella speranza di poter tornare presto a Osaka e ricominciare a vivere degnamente.
Nel frattempo, nella Osaka del 1989, Solomon (Jin Ha), dopo l’ultimo licenziamento, cerca di farsi strada in un contesto di incertezza economica, mentre affronta i sensi di colpa per un passato che non sente davvero suo.
La profondità di Pachinko risiede nei suoi valori
Amore, famiglia, memoria e identità sono dunque i temi cardine di una storia potente in cui le voci femminili risuonano con forza e decisione. Pachinko è, infatti, un racconto corale costruito principalmente attorno ai suoi personaggi femminili, alle loro paure, preoccupazioni e desideri. Yangjin, Sunja e Kyunghee sono la linfa vitale e rappresentano rispettivamente le radici, la forza e la vulnerabilità di un popolo rimasto per troppo tempo nell’ombra. In un mondo oscuro e corrotto, dove la guerra ridefinisce i confini e l’identità di un popolo, mentre gli uomini, sempre più forti e ostinati, sono mossi da un profondo senso di ribellione, appartenenza e rivendicazione; le donne appaiono al pubblico in tutto il loro silenzioso dolore e dignitosa integrità. Le madri, le figlie e le sorelle di Pachinko incarnano dunque l’essenza della Corea del passato, portando con sé tutti i suoi sapori, i profumi e i suoni.
Anche il cibo, nel corso del racconto, assume un ruolo e un valore sentimentale e identitario, tanto importante quanto lo è tutt’oggi nella cultura coreana. Questo valore emerge fin dalla prima stagione, quando Yangjin si impegna con tutte le sue forze per procurarsi una porzione di riso bianco da servire alla piccola cena di matrimonio di Sunja. All’epoca, il riso bianco era un alimento riservato al popolo giapponese, e quel sapore pregiato diventa un simbolo di amore e sacrificio, che commuove Sunja e rimarrà impresso nella sua memoria anche decenni dopo. Oppure, il kimchi (piatto tradizionale coreano fatto con cavolo fermentato), preparato da Sunja con grande attenzione, diventa un mezzo attraverso il quale riesce a sostenere la sua famiglia, rappresentando una connessione profonda con le sue radici e una forma di resilienza. E, ancora, il tofu, condito con una varietà di salse, e il saporito ramen, che Sunja vede e assapora per le strade di quel mercato mentre sogna di poter aprire un ristorante, riflettendo la sua ambizione e i suoi desideri per un futuro migliore.
In Pachinko, il cibo non è solo quindi nutrimento, ma si trasforma in un vero rifugio emotivo e in una memoria vivente. Ogni piatto e ogni sapore raccontano storie di speranze e sogni, contribuendo a delineare l’identità dei personaggi e arricchendo il racconto con una dimensione aggiuntiva di significato che tocca profondamente la tradizione e le radici culturali di un popolo.
Pachinko e Minari: la resilienza di un popolo
Sotto molti aspetti, Pachinko richiama la significativa opera cinematografica Minari, di Lee Isaac Chung, che pochi anni fa ha portato con orgoglio la Corea del Sud agli Oscar 2021. Proprio come Pachinko, Minari racconta, attraverso il coraggio e le sfide di una famiglia sudcoreana emigrata in America negli anni ’80, uno spaccato cruciale della storia e dell’esperienza di quel popolo. E mentre Pachinko prende il nome dal gioco d’azzardo giapponese che si diffuse globalmente alla fine della Seconda Guerra Mondiale, simboleggiando le incertezze e le sfide della vita, invece Minari esalta ulteriormente il valore del cibo attraverso il suo stesso titolo. Il termine “minari”, infatti, si riferisce a un ortaggio comune nella cucina asiatica, che simboleggia la resilienza e l’adattamento durante i periodi di difficoltà e povertà.
Ma, oltre alla presenza della grandiosa “halmeoni” Yuh-Jung Youn, ciò che accomuna davvero e profondamente le due opere, nonostante le loro differenze di forma e medium, è la capacità di evocare sentimenti intensi e universali nel pubblico. Entrambe le narrazioni esplorano temi come l’impotenza, la perdita, il desiderio di rinascita e il dolore legati al dover lasciare la propria casa e i propri cari in cerca di un futuro migliore, senza però dimenticare mai chi si è veramente, senza mai dimenticare le proprie radici e la propria storia.
Pachinko si riconferma un capolavoro
Se pubblico e critica temevano che un’opera così ben scritta ed elaborata come Pachinko potesse perdere il suo fascino, possiamo finalmente tirare un sospiro di sollievo. La seconda stagione non solo mantiene, ma innalza ulteriormente il livello, confermando Pachinko come un autentico capolavoro della serialità televisiva degli ultimi anni. La qualità della regia e della sceneggiatura è impeccabile, sostenuta da un cast straordinario che cattura l’attenzione del pubblico sin dai primi istanti. Ogni dettaglio, grande o piccolo, è meticolosamente curato e contribuisce a una narrazione ricca e sfumata, meritando una visione attenta e appassionata.
La scelta della sigla è un esempio ulteriore della cura e della precisione con cui ogni elemento è stato selezionato per arricchire l’esperienza visiva. Il passaggio dalle note energiche di “Let’s Live for Today” dei The Grass Roots a quelle più decise e autoritarie di “Wait a Million Years” della stessa band sottolinea l’evoluzione e la maturazione della trama e dei personaggi.
Nonostante alcuni interrogativi e spunti interpretativi rimasti aperti, la seconda stagione di Pachinko offre una conclusione soddisfacente e ben strutturata di una storia che ha saputo toccare profondamente il pubblico. La serie non solo completa il suo arco narrativo con eleganza, ma fornisce anche una chiusura che riflette l’intelligenza emotiva e la qualità rara che la distinguono dalle numerose produzioni televisive spesso superficiali disponibili negli ultimi anni sulle piattaforme di streaming. In conclusione, Pachinko ha raggiunto un livello di perfezione che fa sperare che i creatori non cedano alla tentazione di prolungare un’opera che ha già dato e fatto molto più di quanto ci si potesse aspettare.
Pachinko - stagione 2
Sommario
Nonostante alcuni interrogativi rimasti aperti, la seconda stagione di Pachinko non solo mantiene, ma innalza ulteriormente il livello, confermandosi come un autentico capolavoro della serialità televisiva degli ultimi anni.