Sono Vergine: la recensione della serie su Prime Video

Composto da sette episodi di circa mezz'ora, lo show è diretto da Boots Riley, ed ha come protagonista il gigante Cootie

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Boots Riley, dopo il debutto dietro la macchina da presa per il film Sorry to Bother you, torna con una serie che segue la stessa onda del suo esordio in regia: Sono Vergine. Lo show, che arricchisce il catalogo di Amazon Prime Video, si impregna di quel surrealismo tipico della prima commedia nera di Riley, ma questa volta ad essere protagonista è un gigante, il tenero e innocente Cootie, interpretato da Jharrel Jerome.

 

Le figure mitologiche e folcloristiche dei giganti, seppur affascinanti, hanno purtroppo sempre trovato poco spazio all’interno del filone cinematografico di ogni genere, ecco perché la scelta del regista di incentrare la sua storia dai connotati satirici proprio su uno di loro, rende il prodotto molto più attraente. Suscitando la curiosità del pubblico, spinto a chiedersi quale racconto Cootie abbia in serbo per lui.

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Sono Vergine, la trama

Oakland, California. Cootie (Jharrel Jerome) è un giovane ragazzo nato con una specialità: è un gigante. Per tutta la vita, però, è stato tenuto prigionerio nella sua stessa casa dai genitori adottivi, i quali hanno sempre temuto per la sua incolumità, vivendo con il terrore che il mondo esterno avrebbe potuto fargli del male qualora lo avessero scoperto. Gli amici di Cootie sono i ragazzi che vede in televisione, inoltre lui non ha fatto nessuna esperienza, né a livello di amizia né tantomeno amoroso, e ne soffre.

Fino a quando, un giorno, non inizia a parlare con tre ragazzi, Felix (Brett Gray), Scat (Allius Barnes) e Jones (Kara Young), i quali gli fanno scoprire cosa si cela aldilà delle mura del suo appartamento nascosto. Una volta a contatto con la società, Scootie si renderà conto di come siano davvero gli esseri umani, e di quanto il sistema sociale e politico non sia clemente e buono come lui immaginava. Nel frattempo, affronterà anche un bellissimo viaggio nelle esperienze della vita.

Sono Vergine Carmen Ejogo e Mike Epps

Tra il surreale e il politico

Sono Vergine è spennellato di una surrealtà molto comica, grottesca e satirica, che ben si palesa dalla prima inquadratura quando vediamo un bambino appena nato di grosse dimensioni in braccio alla madre adottiva perplessa. L’intenzione del regista, lo si capisce subito, è di non allontanarsi mai da questo tono da commedia surreale, pur essendo la serie molto ibrida, nella quale convergono molti tagli narrativi differenti. Fra questi troviamo il fantasy, componente molto forte, una sfumatura del thriller, del mystery, e negli ultimi episodi una propensione all’action, che rendono lo show un caleidoscopio di generi.

Inglobando narrazioni diverse fra loro, pur mantenendo una base comedy, Sono Vergine cerca di affrontare tematiche attuali molto importanti, riferendosi in primis alla sfera politica americana, nella quale però sono contenuti temi universali. È chiaro infatti il desiderio di Riley, come aveva fatto in Sorry to Bother you, di criticare il capitalismo e la sua crisi, a causa della quale negli Stati Uniti la popolazione vede aumentarsi le tasse e abbassarsi gli stipendi. Creando agitazione, sofferenza economica e proteste. Anche il tessuto sociale è preso di mira, si pone la lente d’ingrandimento sul razzismo e la disuguaglianza fra classi sociali, là dove la povertà ti condanna alla morte, come dimostra l’epilogo infelice di Scat, uno degli amici di Cootie, deceduto per non essere stato soccorso in ospedale a causa dell’assicurazione sanitaria.

L’inclinatura verso quest’atmosfera più cupa e realistica è però sempre alternata, per non dire surclassata, dal lato ironico e supereroistico della serie, la quale si occupa principalmente di far conoscere allo spettatore il viaggio esistenziale del protagonista e le sue gag quando è alle prese con il mondo reale (la scena di sesso è fra quelle più divertenti e interessanti). Spezzandone però di continuo il tono che, seppur non generi confusione, infastidisce a tratti per la ritmicità troppo compassata.

La forza è negli affetti

Sono Vergine, nel suo marasma di eventi, ha la capacità di rimanere comunque solido su quello di cui vuole davvero parlare: il processo di crescita e l’accettazione della diversità. Il cominc of age di Cootie, il gigante impacciato che deve fare i conti con la vita al di fuori del nido di casa, sembra più una metafora che un effettiva storia. Ci fa rendere conto di quanto sia difficile astenersi dal giudicare, etichettare o accogliere chi non ci somiglia, e quanto siamo tutti inclini al pregiudizio nonostante chi abbiamo davanti non lo conosciamo affatto. Il nostro protagonista, sia perché nero, sia perché fuori dal comune, viene o sfruttato – monetizzando il suo corpo – oppure screditato e aggredito dai media, che lo condannano subito come mostro seppur non abbia commesso crimini.

Lo show però non si limita solo a condannare o muovere una critica sociale, ma si impegna anche ad elevare, nel suo realismo magico, le nostre relazioni, ponendo l’accento sull’amore e l’amicizia, che rappresentano l’altra faccia della medaglia, quella non intaccata dal “lato oscuro”. Nonostante non sia ben visto dalla comunità, Cootie è amato dai suoi amici e da Flora, un’altra diversa come lui, ed è apprezzato per quello che è, senza essere manipolato o denigrato. Sono Vergine si impianta perciò sulle riflessioni di Riley, le segue e le approfondisce, scavando nelle radici della società e della politica, per smascherarne tutte le contraddizioni.

Dall’altra parte, però, cerca anche di mostrare che qualcosa di buono c’è, e lo si può trovare in quel tessuto umano fatto di principi, valori e lotte. Che, seppur minore rispetto al circondario, è un gioiello da tenerse stretto e dal quale attingere per fortificarsi. Lo show, nella sua traccia surreale, ci dimostra quindi sia in quanto male e corruzione navighiamo quotidianamente, sia quanta meraviglia si nasconde nell’altro che, seppur restii poiché diverso, può farci scoprire scorci di mondo – attraverso il suo sguardo – incantevoli.

Sommario

Riley compie la stessa operazione nel suo film d'esordio, scegliendo di seguire la traccia della critica sociale e politica, per portare alla luce tutte le contraddizioni del capitalismo e le difficoltà che si hanno nell'approccio al diverso, in questo caso prendendo come punto di riferimento il razzismo.
Valeria Maiolino
Valeria Maiolino
Classe 1996. Laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza, con una tesi su Judy Garland e il cinema classico americano. Articolista su Edipress Srl, per Auto.it, InMoto.it, Corriere dello Sport e Tutto Sport. Approda su Cinefilos.it per continuare la sua carriera nel mondo del cinema e del giornalismo, dove attualmente ricopre il ruolo di redattrice. Nel 2021 pubblica il suo primo libro “Quello che mi lasci di te” e l’anno dopo esce il suo secondo romanzo con la Casa Editrice Another Coffee Stories, “Al di là del mare”.

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