Aldo Braibanti: la vera storia dietro al film Il Signore delle Formiche

Aldo Braibanti storia vera

Dopo l’anteprima al Festival di Venezia, è arrivato in sala il nuovo film del regista Gianni Amelio, dal titolo Il Signore delle Formiche (qui la recensione). Interpretato da Luigi Lo Cascio ed Elio Germano, il film ripercorre il cosiddetto “Caso Braibanti“, ovvero il processo svoltosi a Roma sul finire degli anni Sessanta nel quale il poeta e mirmecofilo (ovvero uno studioso delle formiche) Aldo Braibanti venne accusato di plagio, cioè di aver sottomesso alla sua volontà, in senso fisico e psicologico, un suo studente e amico da poco maggiorenne.

 

L’uscita ha dunque riportato alla luce un episodio della storia italiana poco noto, ma ricco di retroscena politici, sociali e culturali, nonché legati ad una precisa volontà di punire la relazione omosessuale esistente tra Braibanti e il giovane studente, di nome Giovanni Sanfratello (nel film chiamato invece Ettore Tagliaferri). Il film, tuttavia, non è stato concepito per essere una riproposizione del tutto storicamente accurata degli eventi, prendendosi alcune libertà e soprattutto ricostruendo la vicenda in ordine non cronologico e attraverso l’intervento di più punti di vista.

Aldo Braibanti: la vera storia dietro al film Il Signore delle Formiche

Aldo Braibanti nasce a Fiorenzuola d’Arda, in provincia di Piacenza, il 17 settembre 1922. Sin da giovanissimo si appassiona allo studio della natura e in particolare degli insetti sociali, tra cui le formiche, ma nutre un forte interesse anche per la poesia. Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Giosuè Carducci, Giovannni Pascoli e Gabriele D’Annunzio sono i suoi miti letterari. Oltre all’impegno culturale, però, Aldo crescendo inizia ad abbracciare sempre più una politica antifascista, ereditata dai suoi genitori. Negli anni del liceo, infatti, contribuisce a diffondere manifesti che invitano ad andare contro la dittatura fascista.

Finita la guerra, nel 1947, egli recide però ogni rapporto con la politica, concentrandosi unicamente sull’attività di letterato. Nei decenni successivi egli si occupa infatti non solo di dar vita alle sue prime opere come poeta ma anche di dar vita ad un laboratorio culturale divenuto celebre come quello di Castell’Arquato. Spostatosi poi a Roma negli anni Sessanta, inizia qui a lavorare anche in ambito teatrale insieme ad un altro celebre uomo di cultura quale Carmelo Bene. A Roma, però, Braibanti si avvale anche della collaborazione di Giovanni Sanfratello, un ragazzo appena ventenne affascinato dalla cultura del poeta e che si offre di aiutarlo nei suoi progetti.

Conosciutisi durante il laboratorio artistico di Castell’Arquato, i due decidono insieme di spostarsi a Roma, nonostante la contrarietà della famiglia di Giovanni, di natura profondamente conservatrice e fascista. Non sopportando la ribellione del figlio, il padre Ippolito il 12 ottobre 1964 presenta denuncia alla procura di Roma contro Braibanti con l’accusa di plagio. In pratica, Aldo Braibanti veniva accusato da Sanfratello di aver influenzato suo figlio e di avergli imposto le proprie visioni e i propri principi. In realtà, secondo gli storici, s’intendeva perseguire la relazione omosessuale dei due.

Il processo ad Aldo Braibanti

La denuncia nei confronti di Aldo Braibanti si riferiva in particolare all’articolo 603 del codice penale, il quale punisce con una reclusione da 5 ai 15 anni chiunque sottone un’altra persona al proprio volore in modo da ridurla in totale stato di soggezione. Mentre Braibanti veniva dunque portato in tribunale, Giovanni veniva invece letteralmente sequestrato dai suoi famigliari e trasferito per 15 mesi in un manicomio a Verona, dove subirà numerosi elettroshock. Nonostante ciò, quando sarà chiamato a testimoniare in tribunale, Giovanni difenderà il poeta, senza però ottenere risultati.

Ben più peso venne dato alle dichiarazioni di Piercarlo Toscani, un elettricista con cui Braibanti aveva avuto una relazione nei primi anni Sessanta. L’uomo accusò il poeta di averlo indottrinato politicamente e di avergli inculcato idee dannose. Il processo si concluse dopo quattro anni, nel 1968. Braibanti venne condannato a nove anni di reclusione, divenuti poi quattro. Di questi, due gli verranno però condonati in quanto Braibanti era stato partigiano della Resistenza.

Trentacinque anni dopo, in Emergenze, Aldo Braibanti dirà del processo: “quel processo, a cui mi sono sentito moralmente estraneo, mi è costato due nuovi anni di prigione, che però non sono serviti a ottenere quello che gli accusatori volevano, cioè distruggere completamente la presenza di un uomo della Resistenza, e libero pensatore, ma tanto disinserito dal mondo sociale da essere l’utile idiota adatto a una repressione emblematica. Purtroppo la colpevole superficialità di gran parte dei media ha cercato da allora di etichettarmi in modo talmente odioso che per reazione ho finito col chiudermi sempre più in un isolamento di protesta, fuori da ogni mercato culturale”

Aldo Braibanti Il Signore delle Formiche

Aldo Braibanti, dopo il processo

La condanna suscitò accese polemiche a livello internazionale. Dalla parte di Braibanti si schierarono i principali uomini di cultura, da Alberto Moravia a Pier Paolo Pasolini, e si evidenziò in particolare la profonda anomalia del reato contestato e della sua gestione da parte del sistema processuale italiano. Dal canto suo, Braibanti continuò la sua attività di poeta anche in prigione, componendo una raccolta dal titolo Le prigioni di stato. Uscito poi di prigione, egli riprende a suo modo attività culturali di vario tipo, mantenendo appunto sempre un profilo basso, tentende all’isolamento e lontano dalle logiche di mercato.

Gli ultimi anni di vita Aldo Braibanti li passa in miseria, con la sua storica casa romana che gli viene anche sfrattata. Egli tornerà dunque a Castell’Arquato, dove continuerà a vivere in ristrettezze economiche mentre cerca di portare a termine le sue ultime opere. Il 6 aprile del 2014, infine, all’età di 91 Braibanti muore. Il poeta aveva comunque avuto la soddisfazione di sopravvivere all’articolo che lo aveva condannato alla reclusione. Questo era infatti stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza 96/1981.

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