Match Point rappresenta una delle svolte più significative nella carriera di Woody Allen, segnando un momentaneo allontanamento dalle ambientazioni newyorkesi che da sempre caratterizzavano il suo cinema. Ambientato nella Londra dell’alta borghesia, il film adotta un tono cupo e drammatico, esplorando temi come il caso, la fortuna, la colpa, l’ambizione e la morale con una freddezza inedita rispetto alla vena più ironica e intellettuale dei suoi lavori precedenti. Allen abbandona la narrazione autobiografica e il personaggio nevrotico che lo ha spesso rappresentato, per concentrarsi su una storia tragica e crudele in cui la sorte si sostituisce alla giustizia.
Dal punto di vista stilistico e tematico, Match Point si configura dunque come un thriller esistenziale che guarda esplicitamente alla narrativa di Fedor Dostoevskij, in particolare a Delitto e castigo, ma anche al cinema di Ingmar Bergman e all’estetica del noir. Gli elementi di novità sono molteplici: la regia più sobria e controllata, l’assenza di umorismo, una fotografia elegante ma priva di calore, e un protagonista — interpretato da Jonathan Rhys Meyers — cinico e calcolatore, lontanissimo dagli antieroi romantici alleniani. Il successo fu immediato: questo divenno uno dei film più apprezzati di Allen dai tempi di Crimini e Misfatti (1989), ricevendo anche una nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.
Proprio la freddezza della narrazione e l’ambiguità morale dei personaggi hanno spinto molti spettatori a interrogarsi sul senso profondo del film, e in particolare sul suo finale scioccante. Nel prosieguo dell’articolo, analizzeremo gli ultimi snodi della trama, i simboli ricorrenti e il significato della “punto decisivo” evocato nel titolo, cercando di comprendere cosa Match Point abbia davvero da dire sul ruolo del caso nella vita umana e sull’illusione della giustizia.
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La trama di Match Point
Protagonista della vicenda è il giovane e affascinante Chris Wilton, insegnante di tennis convinto che la fortuna sia il vero valore da perseguire. Sul campo da gioco fa la conoscenza di Tom, appartenente alla nobile famiglia degli Hewett. Data la loro comune passione per la lirica, Tom decide di introdurre Chris ai suoi genitori e alla sorella Chloe. È proprio con quest’ultima che il giovane intreccia una relazione sentimentale, benvista dai parenti. Sotto la loro protezione, Chris intraprende quindi una vita borghese fatta di lussi e successi lavorativi.
L’equilibrio si spezza però nel momento in cui egli fa la conoscenza di Nola Rice, giovane ed attraente attrice americana. Sfortunatamente per lui, la donna è la fidanzata di Tom. Egli cercherà allora di allontanare ogni desiderio per lei, ma il destino non lo aiuterà. Tempo dopo, ormai sposato con Chloe, per la quale tuttavia non prova veri sentimenti, Chris rincontra Nola. Questa gli confessa di non essere più legata a Tom, e tra i due inizia una torbida e segreta relazione. La vita di Chris comincia però a sgretolarsi, diviso tra la paura di essere scoperto e la necessità di mantenere il suo status.
La spiegazione del finale del film
Nel terzo atto di Match Point, la tensione accumulata esplode con lucida crudeltà. Chris si trova ad un punto di non ritorno: Nola è rimasta incinta e minaccia di rivelare tutto a sua moglie, scombinando l’equilibrio sociale e materiale che Chris ha faticosamente conquistato. Incapace di affrontare le conseguenze delle sue azioni e deciso a non rinunciare alla sicurezza offerta dal matrimonio, Chris architetta un piano brutale: uccide la vicina di casa di Nola per simulare una rapina, e poi uccide la stessa Nola, facendo sembrare il tutto un caso collaterale.
Il crimine sembra perfetto: Chris elimina ogni traccia, gestisce con sangue freddo le indagini e riesce a mantenere una facciata di normalità. Chris tenta poi di disfarsi dei gioielli della signora Eastby gettandoli nel Tamigi, ma un anello rimbalza sulla balaustra e, senza che lui se ne accorga, come in uno sfortunato colpo del tennis che sbatte sul nastro e torna indietro, ricade sul marciapiede. Nonostante il presentimento del detective Mike Banner, che ricostruisce alla perfezione l’accaduto, le accuse dell’omicidio ricadono su uno spacciatore, trovato morto per strada con l’anello della signora Eastby in tasca.
Il rimbalzo dell’anello sulla balaustra, apparentemente sfavorevole a Chris, ne ha invece favorito di fatto l’impunità. Il film si chiude così con una scena apparentemente tranquilla: Chris è con la moglie e la sua famiglia, il loro figlio è nato, e tutto sembra tornato alla normalità. Ma lo spettatore sa che la serenità è stata costruita sul sangue e sull’inganno. Il film si chiude poi con un’inquadratura sullo sguardo di Chris, perso nel vuoto e senza espressione, conscio del fatto che la sua vita non sarà mai più come prima.
Il finale di Match Point è volutamente disturbante perché sovverte le attese morali dello spettatore: il colpevole non solo non viene punito, ma viene “premiato” con la stabilità familiare e sociale che desiderava. Allen costruisce un universo narrativo in cui la fortuna ha più peso della giustizia, e il crimine può restare impunito se sorretto da circostanze favorevoli. Il titolo stesso, “Match Point”, richiama non solo il tennis ma il momento in cui una decisione può far pendere l’esito in un senso o nell’altro: il caso, non la morale, è l’arbitro finale.
Allen riprende qui una delle sue ossessioni centrali, già presente nel già citato Crimini e Misfatti: l’idea che l’universo sia amorale, privo di un ordine superiore che premi i giusti e punisca i colpevoli. In un mondo retto dal caso, l’etica diventa una costruzione fragile e soggettiva. Chris non è semplicemente un villain, ma un uomo che ha scelto la via della sopravvivenza sociale e del successo personale, sacrificando tutto ciò che era fragile, vero o scomodo. L’assassinio, per quanto orrendo, viene reso possibile e accettabile dal contesto che lo protegge.
Il film, dunque, non racconta solo un delitto, ma un’intera visione del mondo: un universo in cui contano le opportunità, la dissimulazione e la fortuna. Chris è il vincitore non perché è intelligente o meritevole, ma perché l’anello — simbolo del caso — cade dalla parte “giusta”. Allen ci lascia con una domanda amara e inquietante: quante volte nella vita reale i colpevoli escono impuniti solo perché il destino, o la casualità, hanno fatto loro un favore? La sua risposta è implicita e spietata: spesso. E non c’è lezione morale da trarre, se non quella che il caso governa più di quanto vorremmo ammettere.