Yara: le differenze tra il film e la storia vera

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Diretto da Marco Tullio GiordanaYara (qui la recensione) rappresenta un ulteriore tassello nella filmografia di un regista che ha sempre dimostrato una particolare sensibilità nel raccontare storie ispirate alla realtà e al dolore collettivo. Giordana, già noto per opere come I cento passi e La meglio gioventù, torna a confrontarsi con un fatto di cronaca nera che ha scosso profondamente l’opinione pubblica italiana: l’omicidio della giovane Yara Gambirasio. Il regista affronta il caso con il suo consueto approccio sobrio e rigoroso, senza indugiare nel sensazionalismo, concentrandosi invece sulle indagini e sul contesto umano e sociale che hanno circondato la tragica vicenda.

La scelta di realizzare un film su Yara nasce dall’esigenza di ripercorrere un caso giudiziario complesso e delicato, che ha tenuto il Paese con il fiato sospeso per anni. La pellicola si sofferma in particolare sulla determinazione e il lavoro instancabile di coloro che hanno cercato la verità, come la PM Letizia Ruggeri, interpretata da Isabella Ragonese. Con Yara, Giordana si propone di offrire un omaggio rispettoso alla vittima e alla sua famiglia, dando voce al dolore e alla speranza di giustizia, e allo stesso tempo riflettendo sui meccanismi della giustizia italiana e sull’impatto che un simile dramma ha su una comunità intera.

Il film, distribuito da Netflix, è stato però naturalmente accolto con reazioni miste: da una parte apprezzato per il tono sobrio e per la delicatezza con cui tratta il caso, dall’altra criticato da chi ha visto nel progetto il rischio di spettacolarizzazione di un dramma privato, un po’ come avvenuto di recente con la serie Avetrana – Qui non è Hollywood. Nel corso dell’articolo, ci soffermeremo proprio su un aspetto particolarmente discusso: le differenze tra il film e la vicenda reale, cercando di capire come e perché Giordana abbia scelto di raccontare alcuni passaggi con un linguaggio narrativo diverso rispetto ai fatti di cronaca.

Chiara Bono in Yara
Chiara Bono in Yara. Foto cortesia di Netflix

La trama del film

Il film è incentrato sul caso di Yara Gambirasio (Chiara Bono), la tredicenne di Bembrate di Sopra, nel Bergamasco, misteriosamente scomparsa nel 2010, dopo aver terminato una lezione di ginnastica ritmica presso il centro sportivo del suo paesino. Quella fredda sera del 26 novembre, Yara non fa ritorno a casa, lasciando la famiglia immersa nell’angoscia. Iniziano così per i suoi genitori mesi di inferno, nei quali si chiedono se la giovane sia ancora viva, mentre le ricerche coinvolgono forze dell’ordine, volontari, giornalisti e inquirenti come il pubblico ministero Letizia Ruggeri (Isabella Ragonese), il colonnello Vitale (Alessio Boni) e il maresciallo Garro (Thomas Trabacchi), impegnati senza sosta nel ricostruire i fatti.

Solo il ritrovamento del corpo della ginnasta, in un campo isolato a Chignolo d’Isola e dopo tre mesi di attesa straziante, permetterà di ottenere un primo indizio, un DNA sconosciuto, rilevato sugli indumenti della ragazza, che consentirà, dopo una lunga e complessa indagine forense, accertamenti incrociati e un grande aiuto da parte di tutta la popolazione di Bembrate, d’individuare un sospettato, un uomo, Massimo Bossetti (Roberto Zibetti), fino a quel momento per nulla preso in considerazione, muratore incensurato la cui traccia genetica era compatibile con quella isolata nella zona colpita da arma da taglio. L’arresto arriva dopo anni di lavoro investigativo, proprio quando l’inchiesta sembrava vicina all’archiviazione definitiva.

Le principali differenze tra il film e la storia vera

Pur cercando di attenersi quanto più possibile ai reali risvolti della storia di Yara, il film presenta delle naturali differenze rispetto alla realtà. Ad esempio, si enfatizza la figura della PM Letizia Ruggeri come protagonista, mentre la vittima, Yara Gambirasio, appare principalmente nei primissimi minuti. Questa scelta narrativa è stata criticata: molti osservatori, tra cui il magazine Framed e il Giornale, sottolineano che il titolo risulta fuorviante, perché la ragazza resta sullo sfondo, intorno alla figura forte e combattiva della PM. Comprensibilmente, però, Giordana ha voluto raccontare non tanto il caso criminale in sé, quanto la determinazione e gli ostacoli di una donna di legge in un ambiente tradizionalmente maschile.

Nel film vengono poi trascurate alcune fasi reali dell’indagine, come il DNA presente sul giubbetto dell’istruttrice Silvia Brena, estratto il 2 aprile 2011. Anche il blitz su Mohamed Fikri, arrestato per errore, viene raffigurato, ma senza approfondire l’impatto emotivo della comunità e le implicazioni giudiziarie reali. Le omissioni suggeriscono una volontà di privilegiare un racconto lineare e centrato sulla PM, piuttosto che una ricostruzione fedele e complessa di tutte le ipotesi investigative, le quali avrebbero inevitabilmente reso più complicato e lungo il racconto. 

Isabella Ragonese in Yara
Isabella Ragonese in Yara. Foto cortesia di Netflix

Nel film si attribuisce poi al cellulare di Bossetti una precisione di posizionamento “alla via”, grazie alle celle telefoniche, il che è tecnicamente impossibile. Anche il GPS viene presentato come non ancora usato. Un’altra differenza, seppur di minor importanza all’interno del film, è l’accento di Yara che appare forzatamente “romano”, anziché bergamasco, come sottolineato dal quotidiano Il Giorno. Tali rappresentazioni appaiono infatti più funzionali alla tensione narrativa che a un ritratto realistico delle tecnologie investigative dell’epoca.

Riguardo al film si sono poi espressi sia i genitori di Yara sia i legali di Bossetti, i quali hanno dichiarato di non essere stati consultati: “Nessuno ha sentito la nostra voce”, ha affermato Claudio Salvagni, avvocato della difesa. L’assenza delle loro testimonianze rende il film un racconto con un unico punto di vista: quello della PM Ruggeri. Questa scelta, se da una parte limita la pluralità narrativa e impedisce uno sguardo più comprensivo su questioni delicate come la difesa del diritto, la complessità del processo e il trauma delle famiglie coinvolte, dall’altra permette al film di poter seguire un unico personaggio ed evitare maggiore confusione.  

Infine, le riprese non sono state effettuate a Brembate o Chignolo d’Isola, ma in location come Fiano e San Vito Romano. Giordana ha motivato la decisione per questioni logistiche legate al Covid e per non gravare ulteriormente sulla comunità bergamasca. In generale, il regista dichiara di aver voluto raccontare un “caso che è stato specchio dell’Italia“, facendosi portavoce di una realtà simbolica piuttosto che di un adattamento cronachistico pedissequo. Questo ha naturalmente portato alla ricostruzione di un contesto piuttosto diverso rispetto a quello dove si sono realmente svolte le vicende.

le differenze tra film e realtà, dunque, sono molte: dalla centralità della PM Letizia Ruggeri alla marginalizzazione di Yara, dalle omissioni investigative a scelte tecniche di vario tipo e al mancato coinvolgimento delle famiglie. Queste strategie rispecchiano però una visione autoriale che privilegia una narrazione drammaturgica lineare e un focus tematico piuttosto che una cronaca puntuale, propria più di un documentario. Giordana, infatti, ha voluto realizzare non una docufiction, ma un affresco simbolico del sistema giudiziario, delle dinamiche di genere e del peso dell’inchiesta di massa in un Paese scosso dalla cronaca nera.

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Gianmaria Cataldo
Gianmaria Cataldo
Laureato con lode in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza e iscritto all’Ordine dei Giornalisti del Lazio come giornalista pubblicista. Dal 2018 collabora con Cinefilos.it, assumendo nel 2023 il ruolo di Caporedattore. È autore di saggi critici sul cinema pubblicati dalla casa editrice Bakemono Lab.
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