Cesare deve morire: intervista ai fratelli Taviani

Al cinema Nuovo Sacher nel suggestivo quartiere Trastevere di Roma, Paolo e Vittorio Taviani, la produttrice Grazia Volpi, il regista teatrale Fabio Cavalli con l’assistente Maurilio Giaffreda ed una parte degli interpreti di Cesare deve morire (gli ex detenuti Salvatore Striano e Fabio Rizzuto), rispondono alle domande dei giornalisti in una conferenza stampa moderata da Nanni Moretti la cui Sacher distribuzione si sta occupando della diffusione del film nelle sale.

 

NANNI MORETTI: Una domanda per Paolo e Vittorio Taviani: La scintilla che vi ha suggerito l’idea del film è scaturita  dall’ aver assistito ad uno spettacolo allestito dalla compagnia teatrale del carcere di Rebibbia?

PAOLO TAVIANI: Si. E’ stata una nostra amica, press agent anche della compagnia teatrale del carcere, ad invitarci ad uno di questi spettacoli. All’inizio eravamo diffidenti ma poi siamo rimasti folgorati ed abbiamo provato delle emozioni fortissime. Uno dei detenuti che doveva in quel momento leggere il canto  dell’Inferno di Dante i cui protagonisti sono Paolo e Francesca, disse , prima di iniziare la lettura, che loro riuscivano proprio a sentire  il dolore dei due infelici amanti a cui la possibilità di stare insieme era stata negata. Anche a loro infatti, era imposta dal regime carcerario la lontananza dagli affetti e dall’amore anche carnale. Poi iniziò a leggere modificando il linguaggio di Dante con il suo dialetto regionale ed in questo modo ci fece riscoprire una poesia che pensavamo di conoscere nei minimi particolari. Quindi abbiamo voluto raccontare tramite un’opera cinematografica, la grande emozione che abbiamo provato.

D: Per Salvatore Striano: Cosa ha significato e sta significando per lei questo film?

SALVATORE STRIANO: Dico che il solo lavorare con Paolo e Vittorio Taviani mi ha dato tantissimo da molti punti di vista. Per il resto sto ancora cercando di capire e metabolizzare quello che mi è successo, quindi ora come ora mi avvalgo della facoltà di non rispondere!

VITTORIO TAVIANI: Rispondo io allora! Il rapporto con questi attori ancora ci morde dentro! Un rapporto contraddistinto da una complicità che si crea solo quando si cerca una scheggia di verità attraverso un’opera. Loro hanno cercato sempre di essere se stessi anche quando recitavano. Gli stessi drammi che Shakespeare rappresenta nel Giulio Cesare, gli stessi sentimenti forti, hanno fatto parte del quotidiano di questi uomini, di questi attori che, certo, hanno talento e sono bravi, ma lo sono in modo diverso. Portano nell’interpretazione un qualcosa che proviene da un passato drammatico e da un presente d’inferno. Il talento si aggiunge ad un dato di umanità e per questo il nostro rapporto con loro è un rapporto di riconoscenza.

D: Come avete accolto la vittoria al festival di Berlino? Cosa significa per voi rispetto, ad esempio, alla Palma d’oro vinta a Cannes nel 1977 per Padre padrone? Molti hanno visto questa vittoria come una “rivincita” nei confronti del sistema produttivo Italiano che in questo periodo propone quasi esclusivamente commedie.

PAOLO TAVIANI: Abbiamo accolto la vittoria a Berlino con una piacevole sorpresa. Non ce l’aspettavamo : pensavamo di aver vinto il premio speciale della giuria. Invece quando si sono svolte le premiazioni, abbiamo visto che a mano a mano gli “ orsetti “ assegnati diminuivano e rimaneva sul tavolo della premiazione solo quello d’oro. Alla fine siamo stati chiamati noi per ritirarlo! E’ stato diverso rispetto alla vittoria della Palma d’oro a Cannes, perché questo film è stato realizzato con una speranza, cioè la speranza che possa sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione terribile delle carceri italiane e sul fatto che, sebbene colpevoli, i detenuti sono e rimangono degli esseri umani. Per quanto riguarda la sua ultima affermazione in cui tirava in ballo la commedia, devo ribadire che l’Italia vanta una lunga tradizione cinematografica di commedie che, però, sono sempre andate di pari passo con la produzione di film più impegnati. Anzi, molte commedie del passato sono grandi film che raccontano dei problemi del paese forse anche meglio dei film drammatici. Quindi non bisogna demonizzare la commedia.

GRAZIA VOLPI: Vorrei intervenire dicendo che fare cinema impegnato oggi è difficilissimo persino portando due grandi maestri del cinema come garanzia. Ancora di più questo film, ambientato in un carcere ed in cui recitano veri detenuti o ex detenuti. Infatti vorrei ringraziare il ministero per i beni e le attività culturali e la RAI : senza questi piccoli contributi economici, il film non sarebbe potuto partire.

D: Paolo e Vittorio, prima di girare questo film avevate in mente qualche altro progetto?

VITTORIO TAVIANI: Prima di pensare a questo film c’erano venute in mente altre idee ma erano vaghe. Solitamente per partire con la creazione di un film, dobbiamo sentire una forte emozione. Senza questo tipo di trasporto non ci “fidiamo”. Pirandello paragonava un autore ad una rosa che attende fino a quando un ape non si posa su di lei prelevando il polline e rendendola , così effettivamente produttiva. In poche parole bisogna saper attendere la giusta ispirazione per creare. Ringraziamo quindi il destino che ci ha fatto incappare in questa realtà.

PAOLO TAVIANI: Io cito invece Machiavelli secondo il quale nelle azioni umane un cinquanta per cento è dato dalla volontà, l’altro dal caso.

D: A questo punto vorrei chiedervi della vostra esperienza col digitale. So che è la prima volta che vi confrontate con questa tecnologia.

PAOLO TAVIANI: Anche in questo caso eravamo diffidenti ma poi è andato tutto molto bene. Col digitale, al momento delle riprese, è stata una vera pacchia : finalmente potevamo lavorare senza la preoccupazione di finire una pellicola! Il problema si è presentato durante il montaggio quando alla fine ci siamo ritrovati con tantissimo materiale da dover scegliere. Ma alla fine siamo andati avanti seguendo il metodo che abbiamo sempre usato in fase di post produzione. Quando abbiamo fatto il riversamento in pellicola, invece, abbiamo dovuto usare una pellicola a colori anche per il bianco e nero perché la produzione di pellicole in bianco e nero sta scomparendo. Ciò da alle immagini in bianco e nero un’alone azzurrino che a Vittorio piace molto : dice che da un senso di mistero alle scene. Io devo ancora capire se mi piaccia o meno!

D: Una domanda per Fabio Cavalli: come avete scelto, in fase di sceneggiatura, la frase conclusiva del film: “ Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”?

FABIO CAVALLI: E’ una frase detta dal detenuto Cosimo Rega e che noi gli abbiamo “ rubato” perché ci sembrava perfetta come chiusura del film. Noi l’abbiamo letta come una manifestazione di consapevolezza. Quando nasci in alcuni di questi ambienti legati alla malavita organizzata, metti in conto la possibilità di finire in galera. L’arte fa conoscere a queste persone, una parte di loro che non avevano mai preso in considerazione ed è in quel momento che si “risvegliano” e si rendono davvero conto della situazione terribile in cui si trovano.

FABIO RIZZUTO: Fare teatro in carcere ti fa evadere con la testa. A volte penso che ho imparato più cose con tre anni di carcere che in quarant’anni di vita! Certo sono stato fortunato a capitare nel carcere di Rebibbia dove sono presenti tutte queste attività culturali. Grazie al Centro di Studi Enrico Maria Salerno ora lavoro come attore professionista o, almeno, ci sto provando!

D: Una domanda imbarazzante per Paolo e Vittorio Taviani: lavorando con uomini che si sono anche macchiati di omicidi, vi veniva mai di pensare al dolore delle loro vittime?

PAOLO TAVIANI: E’ una domanda giusta. Diciamo che quest’aspetto costituiva il freno a quella complicità che si stava creando sul set. La pietà , oltre che ai detenuti, deve andare doverosamente anche alle vittime ed alle loro famiglie. Vivevamo effettivamente una forte contraddizione nei nostri sentimenti ma sentivamo che proprio attraverso lo spettacolo, riuscivamo anche a tirar fuori delle emozioni da loro che in un certo senso purificavano quello che avevano fatto.

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