Matthew Mcconaughey
Matthew Mcconaughey a Roma - Foto di Francesco Madeo © Cinefilos.it

“La parte più difficile nel partecipare a Dallas Buyers Club è stata probabilmente il fatto di riuscire a realizzare il film”. Il protagonista di Dallas Buyers Club Matthew McConaughey ha raccontato oggi alla stampa romana il suo film, la sua esperienza, il suo momento d’oro (tra premi arrivati e altri che forse arriveranno), ma ha anche parlato di possibilità e di capacità, di volontà nel cambiare le cose e del problema dell’HIV come un tema ancora attuale e di cui discutere.

 

Di nuovo in forma, dopo la disastrosa ma necessaria perdita di peso, Matthew McConaughey non è apparso come quei protagonisti che cercano la battuta, che ringraziano tutti e che sono sempre e per forza sorridenti. Deciso nei commenti, preciso nelle risposte, articolato nel raccontare la sua esperienza sul set e le decisioni della sua vita, l’attore è riuscito a fare qualcosa che poche personalità dello spettacolo riescono a fare: rendere interessante una conferenza stampa. Ecco alcune delle risposte che ha dato, a partire da una breve spiegazione della genesi di un film particolarmente complesso da realizzare.

“La sceneggiatura ha girato per 20 anni ed è stata rifiutata per 137 volte. E’ stato difficilissimo trovare i soldi per fare il film, e anche cinque settimane prima delle riprese ci sono venuti a mancare i soldi. Quindi la parte più difficile è stata quella di riuscire a farlo. Per me la cosa più difficile è stata che Ron Woodroof è pieno di rabbia, si scontra con tantissime opposizioni, la morte in primis, poi contro la FDA. La mia sfida principale è stata quella di rappresentare le sfumature della rabbia cercando di non rendere una interpretazione ripetitiva.”

-Quando è entrato a far parte del progetto?

“Le sceneggiatura mi è arrivata 5 anni fa. Non c’era nessuno coinvolto, nemmeno il regista. Così sono stato il primo a decidere di parteciparvi, dopo averla letta ci ho scritto sopra ‘questa sceneggiatura ha le zanne’ e avevo assolutamente intenzione di realizzare il film, ma ogni anno slittavamo e non si riusciva mai a prendere in mano la situazione. L’anno in cui ho deciso che avrei voluto farlo, era gennaio, ho detto ‘in autunno girerò questo film’ e qualcuno ha cominciato a mettere in dubbio la cosa, ma io ho insistito. I soldi sono stati difficilissimi da trovare, ma quell’anno ho incontrato il regista Jean-Marc Vallée che ha detto di voler partecipare. Non abbiamo mollato nonostante le difficoltà, ma noi eravamo determinati. E così all’improvviso sono venuti i soldi, ma cinque settimane prima delle riprese abbiamo avuto la brutta sorpresa che i soldi erano spariti. Poi abbiamo deciso di farlo lo stesso. Non avevamo materialmente i soldi ma avevamo le spalle coperte, e così abbiamo deciso di farlo. E’ stata la nostra determinazione a far si che il film venisse realizzato.”

-E’ stato nominato agli Oscar insieme ai suoi colleghi di The Wolf of Wall Street.

“Ho lavorato a The Wolf of Wall Street solo per pochi giorni, sono stati nominati Jonah Hill, e Leonardo DiCaprio, che ha ricevuto tantissime nomination…(sorride) Vi racconto un piccolo aneddoto: quando ho saputo che Martin Scorsese mi voleva incontrare, mi sono ricordato che all’Università di cinema studiavo i film di Scorsese. Dopo 20 anni stavo andando verso casa sua. E mi sono detto ‘io 20 anni fa studiavo i suoi film’, fuori da casa sua mi sono detto ‘mi stanno portando davvero a casa di Scorsese per un film?’, è stata una cosa fantastica! Inoltre le prime cose che ho notato una volta conosciuto è che prima di tutto ha una profondissima conoscenza del cinema, poi che ama tantissimo le parti divertenti. Mi è stato offerto questo ruolo piccolissimo. Io mi sono documentato e ho improvvisato alcune cose, e a lui è piaciuto tutto tantissimo. Dopo un po’ non ci parlavamo nemmeno più, ci capivamo a mugugni, in termini musicali. Abbiamo girato quella scena ed è stato davvero divertente.”

-Cosa pensa de La Grande Bellezza che è il film italiano nominato?

“Non ho visto il film ma ho incontrato il regista, ci siamo salutati e ci siamo detti una cosa che in questi casi non si dice mai ‘ci vediamo agli Oscar!'”

-La sua carriera ha preso una piega decisamente interessante, molto diversa dai suoi inizi. Cosa è cambiato? Le scelte, i ruoli offerti o è una sua maturazione artistica?

“Credo sia una combinazione dei tre elementi. Qualche anno fa ero molto soddisfatto della mia carriera, ma sentivo che volevo qualche cosa in più. Ho deciso quindi di ricalibrare il rapporto con il mio lavoro. Avevo una vita più avventurosa della mia carriera, il che è bene, ma ho cercato di dare una scossa alla mia vita professionale. Mi arrivavano tante sceneggiature che leggevo, ma volevo offerte diverse, volevo un ruolo che mi spaventasse e che mi facesse mancare il terreno sotto i piedi. Ho detto di no ad un sacco di cose: commedie, film d’azione, film romantici. Mia moglie disse che prima o poi si sarebbe esaurito il filone, e così è stato, per un po’ non mi è arrivato nulla. Ma ho considerato che potevo permettermi di non lavorare per un po’, nel frattempo sono diventato papà e per circa un anno non mi è stato offerto nulla mentre mi dedicavo a mio figlio. A questo punto sono diventato una buona idea per alcuni registi, come è accaduto per William Friedkin per Killer Joe, o per Steven Soderberg che mi ha chiamato per Magic Mike, che mi hanno pensato in un altro ruolo. C’è stato quindi non un re-branding, ma una specie di cancellazione del marchio che avevo. Ora ho superato i 40 anni, e un uomo comincia a questa età ad avere nuove idee e nuove aspirazioni. La cosa importante per me è stata la famiglia. Quanto più un uomo si sente sicuro in casa, tanto più può allontanarsene e volare verso nuove sfide. Ho chiuso la mia casa di produzione e la mia casa discografica e ho deciso che volevo essere solo un attore da ingaggio”.

– Cosa spaventava i produttori che dicevano no al film?

“Rifiutato 137 volte. Tutti quelli che investono soldi in un film, in particolare gli Studios, vogliono fare buona arte, ma vogliono anche guadagnarci dei soldi. Quando la riga di presentazione del film dice: film d’epoca, dramma sull’HIV, eroe omofobico. Queste cose fanno dire ai produttore ‘i soldi non li prenderò mai’.”

-Come ha fatto a perdere tutto questo peso mantenendosi in salute e mantenendo l’energia per affrontare un ruolo così intenso?

“La perdita di peso è stata per me un compito molto difficile e metodico. Da militante. Sono andato da un medico che mi ha detto quanto peso dovessi e potessi perdere, circa 20 chili. Mi sono dato quattro mesi, quindi circa 1,5 / 2 chili a settimana. Ho vissuto da eremita, chiuso in casa, circondato dalle cose delle quali si sarebbe circondato il personaggio del film. La cosa sorprendente di questa fase è stata che quanto più perdevo energia dal collo in giù, tanta più ne guadagnavo dal collo in su. Prima di tutto avevo bisogno di meno ore di sonno, mi svegliavo ogni mattina alle 4, qualunque fosse stata l’ora in cui andavo a letto. L’energia che perdevo dal corpo, si accumulava nella testa, come è accaduto a Ron Woodroof. Più perdeva forze nel fisico, più l’energia della sua mente combatteva per vivere ancora.”

-Ruolo cruciale per la sua nuova vita d’attore?

“Credo che siano stati tanti ruoli, quello che ricevo dalle persone è che forse il lavoro degli ultimi anni mi rappresenta bene nel cambiamento. Il primo ruolo forse è stato Lincoln Lawyer, che è piaciuto ed è andato bene al botteghino. Per quello che mi riguarda un ruolo, un film non sono una destinazione. Io amo molto più il processo di realizzazione del film piuttosto che vedere il film. Ho l’ossessione di scoprire chi è il mio personaggio.

-Caratteristica di Ron Woodrof che è rimasta?

“Una delle grandi lezioni che ho imparato da Ron è che se vuoi una cosa devi fartela da solo.”

-Che rapporto ha avuto con gli altri attori sul set?

“Conoscevo Jennifer Garner perchè avevo lavorato con lei prima. Non conoscevo Jared Leto prima del film, e ci siamo incontrati veramente solo alla fine delle riprese. Sul set io ho incontrato Rayon, e lui Ron. Non avevamo tempo, interesse nè voglia di chiacchierare di noi personalmente, e questo è straordinario perchè quando ci sono queste caratteristiche vivi in una bolla, dove esiste solo il film e il tuo personaggio e dove guardi tutto dall’interno verso l’esterno. Nei 25 giorni in cui abbiamo girato abbiamo solo lavorato, il resto non ci interessava.

-Hollywood ha sempre amato le trasformazioni fisiche. La candidatura sarebbe arrivata anche senza i 23 chili in meno?

“La capacità che ha un uomo di superare i suoi limiti non rappresenta per forza una buona arte. Spingersi tanto oltre può essere segno di espressione del sè, ma non è necessariamente arte. Il fatto che io avessi perso tutto quel peso, può avere avuto il valore di uno shock, ma quando vedi il film non vedi una storia su ‘Matthew McConaughey che è diventato secco’, ma su Ron Woodroof. Quando vedi il film vedi lui, il personaggio. Dopo la prima scena io stesso mi sono detto ‘mamma mia sembro un rettile’ ma dopo mi sono perso seguendo le vicende del personaggio. E’ evidente che è una storia vera e lui è un uomo reale. E il pubblico percepisce questo, e questo non vale solo per me, anche per gli altri attore, anche per Jared.”

-Come sta vivendo l’attesa per la magica notte degli Oscar?

“Non vivo in un’atmosfera di aspettativa, mi sto godendo questo periodo e il fatto che parlo del film. Il film va avanti e mi precede, è una cosa molto diversa della promozione. Dallas Buyers Club parla da solo. Io potrei parlarne per altri 100 anni, non mi stancherei mai soprattutto perchè è un film realizzato con meno di 5 milioni, perchè ha avuto una storia difficile e perchè non sono solo io, ma è anche Jared Leto, è la sceneggiatura e il film stesso che sono tutti candidati. Sono molto orgoglioso di questo.”

-Il problema delle cause farmaceutiche e delle cure alternative che impatto ha avuto negli USA?

“Nel 1986 l’HIV era una patologia che i medici non sapevano cosa fare. Davano l’AZT alle persone, perchè si erano accorti che poteva funzionare perchè aveva funzionato anche con alcuni malati di cancro, solo che non avevano capito che insieme al virus uccideva anche tutto il resto. I medici non avevano alternativa, semplicemente non sapevano cosa fare. La cura dell’HIV non era nemmeno in cima alla lista delle priorità. Ron Woodroof ha fatto rumore e così la FDA ha dovuto prendere atto che ci fosse il problema. Lui sapeva che c’erano delle medicine alternative e sapeva che alcune funzionavano. In alcuni casi quelle medicine potevano funzionare. Lui ha fatto rumore, ha fatto sentire la sua voce ma in tribunale ha perso, ma ha sollevato il problema e grazie a lui il Congresso prendesse coscienza dell’importanza di far andare avanti le pratiche e la ricerca per la cura contro l’HIV. Per quanto riguarda le cure alternative, la materia è insidiosa. Se una persona è affetta da una patologia terminale perchè impedire di provare, ma ci sono anche altri problemi diversi. Quando medicina e business si scontrano ci sono sempre zone grigie. L’importanza di Dallas Buyers Club è che rimane attaccato alla pelle delle persone perchè parla proprio di questo, di cose ancora attuali.”

-Come è stato accolto il film nella comunità gay?

“Da quello che so la comunità gay ha accolto molto bene il film. Molte persone sono venute da me a dirmi, ah si io mi ricordo quel periodo, ho perso un fratello, ho perso un amico. All’epoca l’argomento era un tabù, una vergogna essere affetti dalla malattia. Oggi mi rendo conto che magari alcune persone che non ci sono più e che conoscevo possono essere morte per l’HIV ma lo nascondevano. Questo film può essere importante anche per le nuove generazioni che non hanno idea di come erano le cose l’epoca. Oggi dal punto di vista medico si è fatta molta strada, e si può parlare di HIV senza problemi, una volta si era bollati ed emarginati. Per cui è ancora importante parlarne.”

Matthew Mcconaughey-RomaDallas Buyers Club diretto da Jean-Marc Vallee  comprende nel cast Matthew McConaughey, Jennifer Garner, Jared Leto, Steve Zahn, Dallas Roberts, Griffin Dunne, Denis O’Hare, e Bradford Cox. La storia è quella vera di Ron Woodroof, un elettricista a cui nel 1986 viene diagnosticata l’AIDS, e a cui rimangono sei mesi di vita. Deciso a non arrendersi, l’uomo tenta una cura alternativa con farmaci sperimentali.

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