Dal 2019 a oggi molte cose sono cambiate, e anche il Passages con cui Ira Sachs (I toni dell’amore – Love is Strange, Little Men) torna nelle nostre sale è molto diverso dal Frankie con Isabelle Huppert che tanta impressione aveva fatto al Festival di Cannes di quell’anno. Presentato al Sundance Film Festival e poi alla Berlinale – dopo le apprezzate anteprime speciali di inizio mese – dal 17 agosto Mubi e Lucky Red ci offrono uno sguardo moderno non privo di ironia sulla battaglia dei sessi.
Prodotto da Saïd Ben Saïd (Elle, Bacurau) e Michel Merkt (Vi presento Toni Erdmann), in Passages si intrecciano desideri e nevrosi di Ben Whishaw, ma soprattutto della coppia composta da Franz Rogowski (visto di recente in Freaks Out di Gabriele Mainetti e il Disco Boy di Giacomo Abbruzzese) e la splendida e indimenticabile protagonista del La vita di Adele premiato con la Palma d’oro nel 2013, Adèle Exarchopoulos. Loro la chiave di quello che lo stesso regista definisce “un film di attori”, ai quali si è affidato per ottenere qualcosa che non avrebbe mai potuto essere nella sceneggiatura.
Anche per quel che riguarda sensualità e istinto, due elementi che – insieme alle scene di sesso che arricchiscono il film e i rapporti tra i personaggi – non sono molto piaciuti alla censura. Intanto a quella statunitense, che ha vietato il film ai minori di 17 anni. Una decisione che il regista – fondatore dell’organizzazione Queer|Art – ha definito “pericolosa” per il suo combattere “la possibilità che esista un immaginario LGBTQ+” e alla quale Mubi – considerandola “inaspettata” e “deludente” – ha risposto distribuendo il film negli Stati Uniti senza rating.
Un film tanto attuale da esser stato visto come un manifesto della tanto decantata fluidità?
Secondo la mia esperienza, l’importante è l’impatto che il film ha sul pubblico. Poi, quanto a quel che ci veda il pubblico, c’è una frase famosa che dice che se vuoi mandare un messaggio, devi usare la Western Union. Io non volevo mandare messaggi, ma sicuramente un film, una sceneggiatura, possono essere costruiti, strutturati, interpretati e letti in diversi modi. Ed è altrettanto certo è che questo aspetto ci sia, anche se la mia intenzione non era di fare un film a tema. In generale parlerei di un cambiamento generazionale. C’è stato questo passaggio che forse oggi ci permette di vedere le relazioni e i rapporti umani, sentimentali e sessuali, in un nuovo modo, diverso, nel quale le differenze sono consentite.
Tre attori ben orchestrati grazie anche a tre personaggi ben costruiti, come sono nati?
Ho costruito il film su Rogowski, dopo averlo visto nell’Happy End di Haneke, e l’ho iniziato a scrivere durante il primo lockdown. Un periodo nel quale ho provato un grande senso di insicurezza. Non ero sicuro che il cinema potesse sopravvivere e ho sentita la necessità di lavorare a un film che avrei voluto vedere, e del genere che avrei voluto vedere se il cinema fosse sopravvissuto. Un film di attori, che anche si prendesse dei rischi. Proprio in quel periodo avevo visto l’ultimo film di Visconti, L’innocente, e mi aveva ispirato, non solo per la struttura del racconto. Da regista, da uomo di potere, ho sofferto della mancanza di controllo sul mio mondo, il mio ambiente, e in qualche modo mi sentito connesso con Giancarlo Giannini, ma tutti noi abbiamo continuato a sentirci ispirati dal film, anche durante l’intero processo creativo.
Ma non solo per Giannini, giusto?
Il sentimento che mi ha provocato Franz Rogowski è lo stesso che avevo provato per Laura Antonelli. Pur essendomi sempre identificato come omosessuale, e avendo una storia sentimentale in questo senso, sentire queste sensazioni nei confronti del personaggio da lei interpretato è stato molto interessante. Anche come regista, visto che quell’eccitazione mi portava in una diversa direzione. Ho pensato a cosa succederebbe se la mia ispirazione, la mia musa erotica cambiasse. Durante la lavorazione io avevo 55 anni, ma i protagonisti sono molto più giovani, non c’è il tema dell’identità omosessuale, oggi forse c’è un approccio diverso, una differenza generazionale che in qualche modo rende il film – ambientato al giorno d’oggi – molto attuale.
La fascinazione per Rogowski ha condizionato anche la natura del personaggio?
Sin dalla sequenza iniziale del film c’è sicuramente qualcosa di me stesso nella sua posizione, nel suo potere, c’è la mascolinità, il mio essere bianco, ma nei personaggi c’è sempre anche molto di quel che mettono loro. Anche perché io evito di fare prove per non bloccarli, per dar loro un ambiente creativo, perché loro stessi si scoprano, anche se questo significa correre dei rischi. Il suo Tomas è un uomo di potere, che finisce a terra, ma il modo in cui lo fa ha una sua coreografia. Ed è curioso perché Frank aveva pensato di fare il ballerino all’inizio della sua carriera, e anche se oggi dice di non saper ballare il suo corpo è come un’opera d’arte, una scultura, con cui lui sa di poter trasmettere qualcosa.
Un uomo di potere che vediamo tanto attento ai dettagli, quanto talmente egoista da ignorarli…
C’è una coerenza nel personaggio, che è quella di esser costantemente mosso dal desiderio. C’è un gap tra quello che ha e quello che vorrebbe avere, dall’inizio alla fine. Una costante, in un soggetto guidato sempre dal piacere. La mia stessa intenzione, come regista, era di dare qualcosa al pubblico, in qualche modo di dargli piacere, attraverso i diversi elementi del film, dai colori alla fisicità degli attori, in ogni scena. Qualcosa che mostra la ricerca fatta e la concentrazione sui dettagli.
Piacere e fisicità che tornano anche nelle scene di sesso, anche quelle molto curate nei dettagli, quasi delle coreografie, nonostante l’amore omosessuale sembri ancora un tabù…
Per esperienza so che non si può scrivere completamente una scena di sesso per gli attori, sono loro che devono interpretarla, è nelle loro mani. Puoi creare una situazione, nella quale loro si muoveranno, è il mio lavoro è metterli a loro agio, che sentano fiducia e rispetto, e poi lasciare alla loro improvvisazione, al movimento dei loro corpi che esprima quello che avrei dovuto descrivere sulla pagina in maniera dettagliata. Loro possono fare col corpo tutti i paragrafi di una scena. Qualcosa che non avrei potuto fare, tanto che mentre li dirigo sono anche un osservatore, divento pubblico e provo quel che prova lo spettatore.
Quanto al tabù, noi viviamo con la convinzione che tutto vada avanti, che il progresso si muova in una precisa direzione, che con il tempo le cose migliorino, anche grazie a una cultura che ci rende sempre più aperti, ma in realtà, per fare il film, io sono dovuto tornare indietro agli anni ’70 e ’80, a Chantal Akerman, ad Accattone, a Visconti, indietro a un periodo nel quale eravamo meno repressi anche per ricordarmi cosa era possibile raccontare con le immagini. Tornare a quel periodo mi ha consentito di creare delle scene nelle quali non ci fosse la vergogna.