Questa mattina presso l’Hotel De Russie a Roma si è tenuta la conferenza stampa del film Vizio di forma di Paul Thomas Anderson. Ad incontrare la stampa c’era il regista statunitense.
Come ha lavorato sul libro
di Pynchon? definito uno degli autori meno adatti alle
trasposizioni cinematografiche.
Paul Thomas Anderson: In realtà non ho mai pensato che
fosse assolutamente e completamente difficile, nel senso che sapevo
che era complesso ma gli altri lo sono ancora di più. Questo si è
presentato come quello leggermente più presentabile, più fattibile.
Ho cominciato a scrivere sapendo che era la storia di un uomo a cui
era stata data una missione che lui cercava di compiere.
Nel rapporto con l’autore,
che scambi avete avuto?
P.A.: Non ci sono stati scambi per sua scelta, dobbiamo
far finta che lui non ci sia, che lui non esista o che potrebbe
essere una bambina, una donna o che potrebbero esserci tanti
Pynchon. Quello che conta è il libro, io se dovessi rinascere, mi
piacerebbe fare come lui, no che non mi piaccia stare qui con voi
giornalisti, ma questa aura di mistero dove è il lavoro che parla
per sé, mi piace.
La logica del film sfugge
alle leggi del reale. Tutto sembra un sogno allucinato, ma la
struttura ha ricordato Eyes Wide Shut, un sogno nel sogno,
un uomo che sogna di tornare dalla sua ex e di recuperare un mondo
che non potrà tornare mai.
P.A.: Mi piace quest’ultimo passaggio, che si tratta di un
sogno su cui non si può tornare indietro ma non sono d’accordo su
cose che sembrano sfuggire o sono distanti dalla realtà. Perché
anche nel leggere il libro c’è la sensazione che per quanto possano
sembrare iper realistiche, eccessive, estreme e distanti da quello
che è la realtà poi ti rendi conto di quanto invece siano assurde e
strane le cose che appartengono alla nostra vita, esperienze
quasi scioccanti quelle che puoi fare, quasi extrasensoriali che
possono essere diventare telepatiche.
Nel libro c’è questo senso
di malinconia per ciò che è passato e finito, dal suo punto di
vista, quell’epoca segna anche l’innocenza perduta
dell’America?
P.A.: Si c’è all’interno del libro il riferimento alla
fine di un certo tipo di innocenza e in effetti hai ragione.
Inoltre nel libro c’è l’ultimo periodo in cui poteva essere fico
essere sentimentali, oggi non è più di moda, non va più bene essere
sentimentali. Quindi la fine di un certo tipo di innocenza presumo,
Charles Manson e la sua banda c’è l’hanno
distrutta. (cantautore statunitense diventato uno degli
assassini più efferati degli Stati Uniti n.d.r.)
Il film costringe il
pubblico a cercare delle citazioni, alcuni momenti ricorda anche
L.A. Confidential in particolare penso a Kevin Spacey.
Oppure il mondo in cui Doc va alla sede della Golden Feng, sembra
James
Bond. Mentre le canzoni vengono lasciate andare di
continuo.
P.A.: La musica che ascoltate nel film è quella che io
ascolto regolarmente Neil Young, Jhonny Greenwood,
Minnie Riperton…che è stata anche mia suocera.
Mentre per quanto riguarda le citazioni, la serie televisiva degli
anni ’60 Dragnet, Joe Friday interpretato
da Jack Webb è stata anche la base per il
personaggio interpretato da Kevin Spacey, di questa polizia di Los
Angeles che hanno interesse a stare in televisione più di quanto ne
hanno di risolvere i casi. Inoltre ho anche molti amici nella
polizia di Los Angeles che ancora se la prendono e criticano quelli
lì per la pessima reputazione di cui gode la polizia, perché ormai
vengono rappresentati come strafighi fantastici, sempre rispettosi
della legge, cosa che a Los Angeles è tutt’altro che così.
Che indicazioni ha dato a
Joaquin Phoenix per interpretare il personaggio di Doc?
P.A.: Non gli ho dato suggerimenti, indicazioni o
consigli. Abbiamo buttato giù un po’ di idee su quello che
poteva essere il suo aspetto fisico, abbiamo guardato insieme
il documentario The Most Dangerous Man,
che parla degli anni ’60, le foto di Neil Young. E
poi ho lasciato che lui facesse da solo.
Una domanda sugli attori,
il film è corale e pieno di volti noti ma a dare l’innesco alla
storia è Katherine Waterston, perché lei?
P.A.: Devo dire che lavorare a questo film è stato molto
bello proprio per questo aspetto, il libro ha dei personaggi
fantastici che noi abbiamo potuto assegnare sia ad attori
famosi o non. Offriva questa vasta gamma di personaggi dove potevi
veramente metterci tutti. Io ho scelto lei anche prima del provino,
l’avevo già vista in un film, mi era piaciuta, avevo in mente
questa idea di lavorare con lei. Poi l’ho convocata proprio perché
ha questo corpo e volto di ragazza degli anni ’60-’70 quindi dal
provino è risultato chiaro che doveva essere lei.
Quanto ha contribuito alla
creazione della locandina? perché sembra un po’ la creazione della
mente di Doc.
P.A.: Si, l’immagine la racconta perfettamente, difatti la
parte che mi piace di più e l’immagine di Shasta che preme con la
sua mano sulla testa di Doc. Questa era l’idea che avevamo e la
Warner Bros ha trovato degli artisti in grado di
fare le copertine simile a quelle della paperback, associata a quel
tipo di immagine e disegno.
Per quanto riguarda il
caso, quanto è stato difficile interpretare la realtà e
l’enigma?
P.A.: Questa è più una cosa di Pynchon, poiché io mi sono
più preoccupato della resa del libro. Questo è un argomento che lui
ha già trattato in The Crying of Lot 49
dove lui parla di questa ricerca di risolvere l’enigma e il mistero
e di come una persona potrebbe inseguire le risposte all’infinito
senza ottenerle mai. E lui spesso parla di questa cosa, o c’è
questa ampia cospirazione che contribuisce a tutte le cose negative
che si verificano e succedono oppure c’è proprio questo vizio di
forma che è insisto e intrinseco in ogni cosa.
Come riesce a tirare il
meglio dall’attore per farlo diventare un personaggio alla P.T.
Anderson?
P.A.: Io penso che bisogna togliere tutte le parti brutte,
fatte male, scritte, dirette e recitate male. Devi partire sempre
da qualcosa che sia ben scritto perché se è finta non funziona,
mentre se è ben fatta è molto facile pensarla e girarla.