40 carati: recensione del film con Sam Worthington

40 Carati

40 carati si apre sull’immagine di un uomo ben vestito che esce dalla metropolitana di New York, prende una stanza al Roosevelt Hotel e, dopo aver scritto un biglietto, apre la finestra, la scavalca e si installa sul cornicione dell’edificio, apparentemente pronto a buttarsi nel vuoto da un momento all’altro.

 

In 40 carati questo Man on a Ledge (letteralmente ‘uomo sul cornicione’ e titolo originale della pellicola), però, non è un semplice aspirante suicida, ma, come si scopre grazie ad un flash back, un ex-poliziotto condannato al carcere ed evaso per provare a tutti la sua innocenza. Nick Cassidy (Sam Worthington, famoso soprattutto grazie ad Avatar), infatti, vuole dimostrare pubblicamente di essere stato incastrato da un uomo d’affari avido e senza scrupoli, David Englander (Ed Harris), ma per farlo ha bisogno di un aiuto, di qualcuno che creda in lui ed è qui che entra in gioco il personaggio di Lydia Mercer (Elizabeth Banks), la psicologa negoziatrice della polizia di New York. La donna, infatti, inizialmente pensa di essere stata chiamata solo per scongiurare un tentativo di suicidio, ma poi capisce che la scelta di Nick, quella di restare in piedi sul cornicione di un preciso hotel, non è frutto di un colpo di testa, ma fa parte di un piano preciso che coinvolge non solo l’ex-poliziotto, ma suo fratello, i suoi colleghi e lei stessa…

40 carati

40 Carati (titolo italiano del film) trova la sua forza nello svelare lentamente allo spettatore le pieghe nascoste della strategia di Cassidy e nella resa particolarmente realistica di determinati comportamenti umani di fronte ad un evento come un tentativo di suicidio. Durante il passare dei minuti, infatti, il protagonista si trova ad interfacciarsi con la folla – che, dal basso, osserva le sue mosse, commenta, riprende la scena con il cellulare, fa battute sarcastiche o “tifa” per lui – ma anche con i giornalisti, rappresentati come squali cinici pronti a buttarsi su una notizia o a scommettere sulla vita di un uomo.

Questa attenzione per la realtà, con ogni probabilità, non è puramente casuale, soprattutto se si tiene conto che la pellicola segna il debutto alla regia nel lungometraggio di Asger Leth, documentarista già insignito del premio DGA Awards come miglior regista di documentari per Ghosts of Cité Soleil. L’attenzione per i particolari, le inquadrature iniziali di New York e quelle che, in soggettiva, mostrano ciò che vede Nick dall’alto, diventano una metafora della condizione psicologica del protagonista: la sua vita è appesa ad un filo e l’altezza riesce a rendere in maniera forte quest’idea di precarietà,  di pericolo, di paura.

La sceneggiatura di Pablo F. Fenjves, inoltre, riesce nell’intento di dosare all’interno del thriller diversi elementi di comicità pura – resi soprattutto da Jamie Bell e Genesis Rodriguez (rispettivamente nei personaggi del fratello di Nick e della sua ragazza)- che, senza nulla togliere alla storia principale, smorzano la tensione e rendono più piacevole la visione. 40 carati è un film in equilibrio tra azione – inseguimenti, furti, sparatorie – e immobilità – resa dai negoziati sul cornicione – che tiene bene per tutta la sua durata e che, nonostante qualche scivolata maldestra nell’inverosimile (soprattutto sul finale), riesce ad essere originale e a non “cadere” nella banalità.

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