Alla sua undicesima fatica, A silence, Joachim Lafosse decide di dipingere un inquietante e infausto affresco sul silenzio familiare, il quale nasce da un profondo senso di vergogna scaturito da qualcuno facente parte dello stesso nucleo. Perché se il silenzio è cifra dominante, l’albero visibile dell’ultimo film del regista belga, il disagio provocato da esso, che altri non è che un segreto oscuro inaccettabile, ne è la radice nascosta. La quale giorno dopo giorno, anno dopo anno, diventa sempre più fitta, più grossa e più difficile da estirpare. Lafosse per delineare il suo A silence parte da una figura esistente, legata a un fatto di cronaca che sconvolse il Belgio: Marc Dutroux, soprannominato il Mostro di Marcinelle, che abusava e seviziava adolescenti per poi lasciarle morire.
Fra queste c’erano Julie e Melissa, 8 anni, il cui avvocato dei genitori che seguiva il caso si scoprì in seguito essere lui stesso stato condannato per detenzione di immagini pedopornografiche, e che nel film di Lafosse diventa uno dei protagonista principali. Un racconto, dunque, non solo disturbante, ma anche allucinante, che suscita non poche riflessioni su un sistema nel quale, alla fine dei conti, nessuno è davvero al sicuro. O tutelato, da quegli stessi paladini della giustizia che poi si scoprono essere a loro volta carnefici. A silence è in Concorso alla 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Progressive Cinema, e ha nel cast Daniel Auteuil, Emmanuelle Devos e Matthieu Galoux.
A silence, la trama
Astrid è la moglie di un importante avvocato, François, il quale sta cercando di ottenere giustizia su un caso che vede coinvolte due bambine vittime di pedofilia e abusi sessuali, oramai morte. Attacca perfino il sistema giudiziario, si espone ai giornalisti inveendo contro il folle criminale che ha commesso oscenità inaudite. Ma una volta tornato a casa da Astrid e il figlio adottivo Raphaël, e chiuse le porte, quello stesso uomo non è chi dice di essere. Non è quello che sembra. Fra le mura di quella villa c’è un segreto, che la moglie nasconde da tantissimo tempo, ed è legato alle notti di François.
Egli infatti invece di dormire sta davanti a un computer e guarda qualcosa che si percepisce essere indecente. Eppure lei non vuole parlare. Nel frattempo, però, la figlia maggiore si reca dalla madre per darle una notizia: Pierre, lo zio, a distanza di venticinque anni vuole denunciare François per averlo violentato quando era giovane. Da quel momento in poi, l’equilibrio apparentemente stabile della famiglia si sgretola. Ma mentre Astrid cerca di tenere insieme i pezzi, quasi negando la verità a se stessa, Raphaël deciderà di agire in un altro, duro, modo.
Dentro i silenzi di una donna sola
Lafosse inizia dalla fine. Comincia con un breve piano sequenza sugli occhi di Astrid mentre si reca dalla polizia, gli unici che non possono mentire come la sua bocca ha fatto per lungo tempo. È uno sguardo affranto ma al tempo stesso consapevole, il suo. Smarrito, colpevole, pieno di vergogna. Il silenzio è stato un cancro che l’ha mangiata viva per ben venticinque anni, ma nel suo cuore conosce la verità, ed è di questa che ha proprio paura. In fondo, non è la paura di perdere qualcosa che genera proprio l’atto del tacere? Deve arrivare una scossa, quella decisiva e assestante, per rimettere in prospettiva una vita che è andata perdendosi per proteggere qualcuno che, poi, neanche si conosce o vuole più.
A silence parte con lei e finisce con lei, perché Astrid è il filo conduttore del racconto, le sono legati tutti i personaggi i quali, nell’operazione lenta di disvelamento che avviene fra luci e ombre, dipendono da lei. Se parla, crolla tutto. Le false certezze su cui ha costruito castelli di sabbia fragili, un amore tenuto in piedi solo per timore di rimanere sola (ma lo è già), e la lussuosa casa, in cui si rifugia per ricordarsi che almeno vive nell’agio, anche se poi comunque piange. Il regista, con questa scelta, decide di focalizzarsi, più che sul crimine commesso da François – che fa comunque da sfondo e da escamotage narrativo – sulle reazioni dei familiari, sulla rottura degli equilibri interni, e sulla poca lucidità che si ha verso stessi e gli altri quando questa è figlia della vergogna.
Forse alcuni passaggi sono un po’ troppo frettolosi considerato il carico drammatico ed emotivo del film, ma nel suo complesso il dramma funziona e nel suo rivelarsi diventa sempre più tetro. E poi c’è Emmanuelle Devos, pilastro principale di A silence, che con la sua provata e imponente presenza scenica riempie ogni sequenza e ci permette di accedere allo stato d’animo di una donna in crisi, combattuta e fragile, che proprio per questo non vuole accettare la realtà dei fatti. Per allieviare il suo senso di colpa mente a se stessa, dicendo sia a lei che ai suoi figli che ciò che è accaduto è oramai nel passato, e la cosa giusta è rimanere in silenzio per il bene della famiglia.
Ma quando poi è la stessa famiglia a ribellarsi, a cercare giustizia e in qualche modo farsela, quali sono le cose che contano davvero? Qual è la scelta giusta da prendere? Forse nessuna, forse quando la vergogna è troppo grande, ci dice Lafosse, quello che rimane da fare è lasciarsi andare agli eventi e far decidere il destino. Ma quando poi si è liberi, come lo sarà Astrid, ma anche Raphaël, tutto ha un sapore diverso. E finalmente si può vedere la luce.