Alcarràs – L’ultimo raccolto, recensione del film di Carla Simón

Vincitore dell'Orso d'oro a Berlino 72, Alcarràs arriva finalmente nelle nostre sale dal 26 maggio.

Esce oggi nelle sale italiane Alcarràs, film della regista Carla Simòn con Jordi Pujol Dolcet e Anna Otin protagonisti. Vincitore dell’Orso d’oro alla  72esima edizione della Berlinale, la pellicola è distribuita da I Wonder Pictures.

 

L’estate dell’ultimo raccolto

Campi estesi e piantagioni, questa è la cornice che muove la trama di Alcarràs. Tre bambini si divertono all’interno di un’auto abbandonata, immaginando una nuova avventura, ma il disperato mondo degli adulti interrompe il gioco: i membri della famiglia Solé si rendono conto che non potranno più coltivare il terreno dei Pinyol, e i frutteti di pesco di cui si occupano da generazioni. Senza documenti che legalizzino la presunta cessione del terreno fatta dal nonno, l’erede Pinyol ha deciso di vendere il terreno a un’azienda energetica per installarvi sopra pannelli solari, redditizi e sostenibili. Quest’estate è dunque l’estate dell’ultimo raccolto per i Solé.

Un approccio introduttivo in tre sequenze risolve rapidamente la trama principale del film. Il resto dei 120 minuti di Alcarràs sono il cammino estivo verso quella fine annunciata troppo presto, che sembra inevitabile ma che nessuno vuole accettare. Il secondo lungometraggio di Carla Simón (Verano 1993) si avvicina alla famiglia Solé durante questi mesi di agonia. La possibilità della caduta in un abisso rovinoso si apre per ciascuno di loro, che vuole dare un senso a questo crepuscolo a partire dalla propria esperienza e dal proprio ruolo all’interno di quello che si configura come un vero e proprio clan: c’è chi si sottrae per scelta o perché non riesce a capire, chi si arrabbia e chi rimane calmo, chi cerca vie d’uscita e chi mantiene una cieca fedeltà, chi si preoccupa e chi si rammarica.

Un film che pianta un seme collettivo

Carla Simón traduce in immagini ciò che molti cineasti neorealisti – e i loro magnifici eredi, dall’Ermanno Olmi de L’albero degli zoccoli all’Alice Rohrwacher de Il paese delle meraviglie – hanno incessantemente perseguito: la verità, questa volta di uno spazio e di un tempo di cambiamento, che riguarda e si rivolge alla collettività, senza tuttavia lasciare mai incolto il seme dell’individuo. La macchina da presa, sembra suggerirci Simòn, è sempre in grado di scrutare qualcosa che l’occhio umano non riesce a percepire e, in questo modo, riesce a raggiungere anche una certa essenza della vita, un momento sacro che esplode come un’epifania. Epifania che ha incontrato il gusto e il cuore di M. Night Shyamalan, presidente di giuria a Berlino 72, che ha premiato Alcarràsper le sue straordinarie interpretazioni, da attori bambini ad attori ottantenni, per la sua capacità di mostrare la tenerezza e la comicità della famiglia e della sua lotta, e per il ritratto della nostra connessione e dipendenza dalla terra che ci circonda“.

Il testo di Alcarràs può essere letto da molti punti di vista: come rivendicazione dell’identità di un mestiere, quello del contadino tradizionale, che si identifica con la terra e i suoi frutti; come ritratto organico e vivace, scevro da manicheismi, della crisi di una famiglia provocata da un dilemma morale; come riflessione sul progresso che cancella le tracce della Storia; in sostanza, su uno spaccato di vita che pulsa e respira attraverso i volti di attori non professionisti, protagonisti del documentario di un’estate che riserva loro un futuro incerto.

La famiglia come spazio per ricostruire il futuro

Il film riunisce tutte queste prospettive individuali e le lega al filo invisibile del nucleo familiare, ultima barriera di fronte a un sistema economico che ne divora i membri perché li considera già perduti. È in questo spazio ridotto, scoraggiante ma pulsante di calore, perché condiviso con i propri cari, che Alcarràs coinvolge irrimediabilmente. Non per costruire un muro di semplice resistenza, quasi di reazione, ma per piantare un seme sul cui futuro, e raccolto, vogliamo e dobbiamo costruire insieme, per renderlo meno minaccioso. Alcarràs ci avvicina, dal territoriale e con i suoi attori non professionisti, a quello spazio in cui il cinema sembra toccare la vita e le sue crepe che, per quanto spaventose appaiano, siamo chiamati a ricostruire insieme come pubblico.

Per quanta sofferenza possa causare la perdita di un terreno perché il proprietario vuole installarvi dei pannelli solari, c’è comunque il piacere del lavoro comunitario, delle riunioni di famiglia con le lumache alla griglia come piatto forte, dei giochi dei bambini negli orti dei vicini. Ognuno in famiglia ha le sue ragioni, sembra dirci Simòn e, in ogni discussione, c’è un’emozione diversa, che questo film generoso condivide con lo spettatore senza chiedere nulla in cambio. Ogni membro della famiglia necessita, in questo senso, di riprese cucite su misura, di un aspetto e una voce ben distinguibili, senza gerarchia alcuna, sempre disposti nel quadro con luminosa chiarezza.

Sebbene abbia molti punti in comune con Verano 1993 – nel suo meraviglioso approccio alla psicologia infantile, ad esempio – Alcarràs è più ambizioso e lascia respirare ampiamente il soggetto narrativo, mai incastonandolo nel limite della prospettiva unica. Piuttosto, riprende le fila del cortometraggio Correspondencia, che Simòn ha firmato a due mani con Dominga Sotomayor, dove c’è già l’idea che le nostre vite, i nostri progetti, sono in qualche modo attraversati dal contesto socio-economico e, in ultima analisi, sempre politico in cui viviamo. Nella cornice di Alcarràs, sostenuta dagli echi della sua personalissima storia, Carla Simón si libra nelle sue virtù registiche: gira con precisione e passione, paziente nel raccogliere la verosimiglianza dei simboli di un’estate, per testimoniare l’ingiustizia di un sistema che cerca solo la redditività economica.

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