
Anita (Eline Powell) è una ragazza ebrea appena scampata all’eccidio dei campi di sterminio; viene accompagnata dal giovane Eli (Robert Sheehan) a casa della zia Monika (Andrea Osvàrt), in Cecoslovacchia. Qui la ragazza cerca di rifarsi una vita, ma l’ostilità del mondo esterno la schiaccia e l’odio comincia a serpeggiare perfino nella sua nuova famiglia.
La pellicola non vuole arricchire l’ampio filone dedicato al tema dell’Olocausto: parlando di un argomento così delicato è facile cadere nella retorica, e proprio per tale motivo Faenza confeziona un prodotto che cerca di andare oltre, raccontando una storia personale di prigioni fisiche e morali, illustrando nel migliore dei modi un viaggio umano e spirituale alla ricerca del proprio Io in un mondo costellato di odio e rancore, costruito sulle ceneri di un atroce conflitto.

Il personaggio di Eli, classico Jewish Guy che affonda le radici nella letteratura e nel cinema ebraico- americani del XX secolo fa da controparte alla fragilità della protagonista Anita, alla disperata ricerca della sua vera identità, cancellata dopo la prigionia. Ma il processo di auto- consapevolezza è doloroso e passa attraverso prove ancora più difficili ed ardue, e nessuno è in grado di condannare o giudicare i comportamenti dei personaggi perché, in fin dei conti, tutti loro stanno cercando di ritrovarsi sul fondo paludoso dell’abisso.
Per Anita la speranza è appesa al filo sottile col passato che non si spezza, alla voce lontana dei padri e della Yiddishkeit che la spingono a cercare, disperatamente, il proprio posto nel mondo.
Ispirato al romanzo semi- autobiografico di Edith Bruck, Quanta Stella c’è nel Cielo, Anita B. è il racconto di un viaggio nelle sfaccettature dell’Io e dell’anima, un erede diretto dei precedenti lavori di Faenza come Jona che Visse nella Balena o Prendimi L’Anima, costituendo con essi una sorta di ideale trilogia dell’identità umana messa a dura prova dai drammi dell’esistenza.

