Aspirante Vedovo: recensione del film con Fabio de Luigi

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Con Aspirante Vedovo,  il regista Massimo Venier fa il tentativo di confrontarsi con un capolavoro indiscusso della nostra tradizione cinematografica, Il Vedovo di Dino Risi, e ri-attualizzarlo al fine di raccontare uno dei volti dell’Italia odierna: quello cinico e imprenditoriale, attraverso i toni tipici della commedia nera. Se l’originale, interpretato dai grandissimi Alberto Sordi e Franca Valeri, è ambientato nel boom economico degli anni ’60, quando a prevalere erano ottimismo e fiducia per il futuro; questo è invece percorso dalla malinconia sottesa ma evidente che caratterizza i giorni nostri. Uno stato d’animo che traspare dall’esistenza dei protagonisti, dalle loro movenze, dalla loro routine e dal loro modo di rapportarsi all’altro che, in entrambi i casi, si dimostra inadeguato.

 

Al centro della vicenda sono Alberto Nardi (Fabio De Luigi) e Susanna Almiraghi (Luciana Littizzetto): una coppia sposata e decisamente male assortita: lui si pavoneggia invano della sua presunta attitudine dinamica e imprenditoriale quando, in realtà, è perennemente a un passo dal fallimento; lei, una importante industriale del nord, è tra le donne più ricche e note di Milano, nonché tra quelle più acide e spietate. Di fronte all’ennesimo rischio di collasso delle imprese di costruzione Nardi, il rapporto tra i due si inasprisce ulteriormente a tal punto da spingere il più sventurato e sprovveduto dei due coniugi, Alberto, a desiderare con tutte le sue forze la morte della moglie, facendo il possibile perché essa realmente sopraggiunga.

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Aspirante Vedovo,

Al di là della critica, tutt’altro che sottile, alle forme di comunicazione mediatica proprie dell’ambito industriale e pubblicitario – emblematica è la sequenza in cui lei, per solidificare l’immagine altruista e beneficiale dell’azienda, vezzeggia le immagini di bambini neri, mossa da ragioni puramente speculative –  e del ritratto, corrotto e vizioso, del clero – delineato dalla figura incresciosa del cardinale amico di famiglia –  l’aspetto forse più interessante e meglio rappresentato è quello della solitudine. Una condizione umana qui contestualizzata e storicizzata dal diffuso e comune sentore del dissesto imminente, privato e professionale; così come dalla consapevolezza, per i più agiati, di non possedere altro all’infuori della propria ricchezza e avidità. Quest’ultimo è proprio il caso di Susanna che, anche al momento della sua morte fittizia, non sarà pianta da nessuno e, con ogni probabilità, neanche ricordata.

Funzionale all’atmosfera decadente generale è la configurazione degli spazi: a predominare è infatti la periferia cittadina, il grigiore e la desolazione delle aree commerciali cui, per contro, corrisponde la fatua opulenza della villa dei due infelici consorti.

Maria Gentile
Maria Gentile
Nata  il 23/11/85, si è laureata a Siena in scienze dei beni culturali, indirizzo musicale, cinematografico e teatrale con una tesi in teorie e tecniche del linguaggio cinematografico su David Lynch: Attraverso un'America silenziosa: The Straight Story; e specializzata in cinema e produzione multimediale presso l'Università di Roma Tre, con una tesi in teorie dell'intermedialità.

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