Club Zero: recensione del film con Mia Wasikowska – Cannes 76

Jessica Hausner torna al Festival di Cannes con un film molto contestato

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Il suo Hotel, nel 2004, era stato molto apprezzato tra i film dell’Un Certain Regard del Festival di Cannes, dove era già passata tre anni prima con Lovely Rita ed è poi tornata con l’Amour Fou del 2014. Ma il vero salto di categoria, Jessica Hausner, l’ha fatto probabilmente con il Little Joe del 2019, finalmente in concorso per la Palma d’Oro, come l’ultimo criticatissimo Club Zero, interpretato da Mia Wasikowska e capace di dividere la critica (ma anche di inserirla di diritto tra gli ‘amici’ della kermesse francese, nonostante la sua partecipazione alla giuria della 71ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia).

 

Non si parla del Club Zero

La bionda ed esile protagonista del Jane Eyre di Cary Fukunaga e del Crimson Peak di Guillermo Del Toro stavolta è Miss Novak, insegnante di educazione – o meglio di consapevolezza – alimentare in una esclusivissima scuola privata per giovani talenti. Con cinque dei quali si stabilisce un rapporto particolare, soprattutto quando decidono di passare dalla normale didattica a un programma che piano assume i connotati di una setta nella quale si pratica una pericolosissima quanto radicale riduzione del cibo assunto E’ il misterioso Club Zero, del quale sono all’oscuro tanto gli altri professori quanto i genitori dei ragazzi.

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La pratica non rende

Da diversi anni è diventata di dominio comune l’esistenza dei breathariani, o respiriani che dir si voglia, ma averci a che fare non è così semplice (anche per ovvi motivi, vista la difficoltà a sopravvivere in assenza di nutrimento). Ben venga quindi un film che li mette al centro del suo sviluppo, per quanto in maniera sfumata e trasversale e nonostante le critiche di quanti temono pericolose emulazioni e la banalizzazione – o spettacolarizzazione – di una pratica inevitabilmente suicida.

Paure legittime, ma che – come al solito – non cura la censura, in questo caso più teorica che altro, visto che il film è nel concorso del Festival di Cannes 2023 dove potrebbe persino essere uno dei più apprezzati dal Presidente di Giuria Ruben Östlund (The Square, Triangle of Sadness). Meno innovativo e all’avanguardia di molto del cinema del suddetto e di quanto venga presentato, il film ha comunque dei momenti interessanti. Intanto nella rassegna dei motivi per cui un adolescente sano e senziente dovrebbe sentire il bisogno di sottoporsi a un regime alimentare specifico – dalla cura del proprio fisico alla riduzione dell’impatto ambientale fino all’autoaffermazione e alla conquista di un maggior controllo su se stessi – e poi nella rappresentazione del contesto che circonda i soggetti osservati.

Il termine è esageratamente asettico, ma al di là dello spirito con cui si mette in scena una storia di manipolazione e debolezze, i cinque ragazzi dei quali seguiamo il percorso assomigliano molto a delle vere e proprie cavie, tanto sullo schermo quanto nelle intenzioni della regista. Che ce li mostra a scuola, isolarsi dal resto dei compagni, e a casa, sempre più distanti dalla famiglia e tutti uguali nel loro diverso chiudersi a riccio al mondo esterno. Una strategia di difesa orchestrata in maniera subdola dalla ‘santona-nutrizionista’, sorta di vampira abile a sostituirsi ai referenti più naturali per dei ragazzi in crescita e a offrire loro una nuova identità, anche facendo leva sulla loro paura dell’incertezza economica, del futuro e del non esser visti.

Avanguardia, o anticamera del disastro

Temi, questi sì, sui quali alzare il livello di attenzione. Dai quali però la vicenda si allontana, scegliendo la strada di un integralismo di matrice quasi religiosa, forse più riconoscibile dal pubblico. Che probabilmente apprezzerà più della critica una storia sbilanciata ad arte e che manca quasi completamente di controparti – né i genitori né la scuola lo sono, anche per necessità narrative – e di una evoluzione reali. Forse anche per le tentazioni – involontariamente? – umoristiche che, qui e lì, la storia si concede (la prima scena con la cioccolata, lo sguardo sconcertato della cameriera di casa) e per una coerenza di tono che punta su una costante “assenza” – di reazioni, di espressioni, fisica – che ben si adatta alla protagonista, ma allontana i ragazzi.

Eppure sono proprio questi dei piccoli segnali di una generale semplificazione, che se alleggerisce il tema fa sì che manchi un vero coinvolgimento emotivo. E questo nonostante il film, in definitiva, si dimostri in grado di ottenere la fiducia dello spettatore, senza però quasi sapere che farne. La colonna sonora, falsamente monocorde salvo alcuni intermezzi di musica tra il tribale e l’orientale, l’ambientazione minimale, la coerenza stilistica dei personaggi e delle location, la caratterizzazione delle famiglie, seppur ridotta all’essenziale, evidenziano uno studio dettagliato alla radice del progetto. Che fatto salvo lo sgomento per la rivelazione della fede e delle conseguenze di una osservanza cieca e immatura si affida principalmente a Wasikowska – della quale si poteva offrire un lato anche più oscuro – con il risultato di non andare molto al di là degli stereotipi utilizzati nelle premesse.

Sommario

Fatto salvo lo sgomento per la rivelazione della fede e delle conseguenze di una osservanza cieca e immatura si affida principalmente a Wasikowska - della quale si poteva offrire un lato anche più oscuro - con il risultato di non andare molto al di là degli stereotipi utilizzati nelle premesse.
Chiara Guida
Chiara Guida
Laureata in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è una gionalista e si occupa di critica cinematografica. Co-fondatrice di Cinefilos.it, lavora come direttore della testata da quando è stata fondata, nel 2010. Dal 2017, data di pubblicazione del suo primo libro, è autrice di saggi critici sul cinema, attività che coniuga al lavoro al giornale.

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