Con Figlia Mia, dopo Vergine Giurata e tre cortometraggi, sembra chiara la direzione dichiaratamente autoriale del cinema di Laura Bispuri. Almeno nelle intenzioni e nel modo in cui il suo sguardo incontra temi, personaggi, luoghi e un linguaggio visivo molto simile a quello di alcuni suoi contemporanei. In questo senso, la culla di un Festival internazionale come Berlino, dove ha presentato sia l’opera prima nel 2015, sia Figlia Mia, sembra aver “frenato” dall’esterno ogni possibile atto di contraddizione; perché va bene il prestigio, la confezione, il plauso nei confronti di una giovane regista e il suo tentativo di distanziarsi dal canone italiano più commerciale, ma ciò che resta al termine del è un misto di delusione e rimpianto.
La Bispuri sa come muovere la macchina da presa, ha gusto per le belle immagini, lavora bene con gli attori – anzi, principalmente attrici – e anche qui ci tiene a ribadire che i racconti migliori dimorano nei territori all’ombra della nostra civiltà, alla fine del mondo, tra le montagne albanesi o in mezzo alle sterpaglie sarde. Sull’isola è ambientato Figlia Mia, ma potrebbe essere un luogo qualsiasi, l’ancestrale tragedia con un triplice punto di vista: quello di Angelica, lasciva, ubriacona e zoppicante, di Tina, devota moglie e madre, e infine della piccola Vittoria, un nome che nasconde tutte le insicurezze del film e una chioma di capelli arancioni.
Parte benissimo Figlia Mia, camera a mano a inseguire i colori del cielo e della terra extra-saturi grazie alla fotografia di Vladan Radovic (Smetto Quando Voglio, La pazza gioia), direttamente dentro l’azione senza nemmeno prendere la rincorsa. E così si procede, una scena dopo l’altra, verso la cima del dramma che non troverà mai un reale sfogo a causa di questa costruzione millimetrica che esclude qualsivoglia partecipazione empatica alle sorti dei personaggi. Tre, di cui due purtroppo inverosimili, costrette ad agire in un mondo che non esiste e che si appella ad un realismo immaginario, fittizio, tutto il contrario di ciò che la Bispuri vorrebbe suggerire.
È un’Italia rurale piena
di simbolismi quella di Figlia Mia, persa tra
campagne e bar di paese illuminati con neon fosforescenti, e questa
ricerca ostinata di autorialità del tutto avulsa dal suo stesso
concetto (è davvero autoriale ciò che somiglia pericolosamente ad
altre decine, forse centinaia di pellicole?) fa subito sprofondare
le buone idee che pure la regista ha in testa ma che evidentemente
non riesce ad esprimere al meglio. Anche l’interpretazione di un
topos come la maternità – che più classico non si può – risulta
superficiale e sfocata, quasi macchiettistica. Perfino
Alba Rohrwacher e
Valeria Golino, talmente sopra il livello di
recitazione dei colleghi, stonano con il resto, contribuendo ad
aumentare lo spazio tra racconto e personaggi, tra l’emozione (solo
evocata, ma mai raggiunta) e lo spettatore.
Proprio come nel cinema di Alice Rohrwacher – sorella di Alba e regista di Corpo Celeste e Le meraviglie – questo immaginario che sogna l’iper-realismo sfocia spesso nel fantastico, in mondi che non riusciamo a sentire vicini e quindi a comprendere. La sensazione è che, da Vergine Giurata a Figlia Mia, Laura Bispuri non riesca lasciarsi andare pienamente perché fin troppo attaccata ad un’idea di cinema superato, che tanti prima di lei hanno proposto, e che oggi nulla aggiunge alla produzione.