Ti sei mai chiesto perché il tuo cane fissa gli angoli vuoti, abbaia nel nulla o rifiuta di entrare in certe stanze? Ben Leonberg sì, e da queste domande nasce Good Boy, il suo esordio alla regia. Un horror intimo e sorprendentemente emotivo, costruito su un’idea tanto bizzarra quanto efficace: raccontare una casa stregata attraverso gli occhi del cane di famiglia.
Senza effetti speciali costosi né dialoghi elaborati, Leonberg riesce a fare di necessità virtù, trasformando i limiti produttivi in stile. Il suo protagonista, Indy, è il suo vero cane, e l’intero film è girato nella casa del regista. Ciò che altrove sarebbe una scelta di economia, qui diventa un atto di coraggio creativo. Il risultato è un horror minimale, poetico e profondamente umano (anche se il punto di vista è, letteralmente, canino).
Good Boy: l’orrore secondo Indy
La trama di Good Boy è, almeno in apparenza, semplice: Todd e il suo inseparabile cane Indy lasciano la città per trasferirsi nella vecchia casa di famiglia in campagna. Ma il nuovo inizio si trasforma presto in incubo. Indy percepisce presenze invisibili, abbaia agli angoli bui e sembra comunicare con lo spettro di un altro cane morto anni prima. Quando il suo padrone inizia a mostrare segni di un cambiamento oscuro, Indy si ritrova a combattere un male che non comprende ma che riconosce come una minaccia per l’unica persona che ama.
Leonberg costruisce un film che vive di percezioni, di piccoli movimenti e di silenzi carichi di tensione. Non ci sono jump scare gratuiti o effetti digitali vistosi: la paura nasce dal quotidiano, da quella strana familiarità che rende ogni corridoio più lungo e ogni ombra più profonda.
Eppure, la vera forza di Good Boy non sta nella sua componente sovrannaturale, ma nella sua lettura metaforica: Indy non combatte un fantasma, ma la malattia del suo padrone, qualcosa che non può comprendere ma che riconosce come un nemico. Il “mostro” del film, dunque, è il dolore, la perdita, la trasformazione dell’essere amato in qualcosa di sconosciuto.
Un cane, un regista, una casa
Girare un horror dal punto di vista di un cane potrebbe sembrare un esercizio di stile, ma Leonberg riesce a trasformarlo in un racconto universale. Indy non parla, non è antropomorfizzato, non ha pensieri espressi in voce off: tutto passa attraverso il montaggio e il sound design, che diventano il suo linguaggio. Ogni respiro affannato, ogni cigolio, ogni ringhio sommesso costruiscono una tensione tangibile, quasi fisica.
L’approccio realistico è ciò che rende Good Boy davvero efficace. L’assenza di artifici visivi, unita alla spontaneità del protagonista a quattro zampe, crea un effetto straniante ma credibile. È come se stessimo spiando un film che si costruisce da solo, dove la realtà quotidiana si piega lentamente all’incubo.
La casa stessa diventa un personaggio: viva, inquieta, permeata di ricordi e presenze. Le luci soffuse, i corridoi stretti e le stanze piene di silenzio amplificano il senso di isolamento, mentre la fotografia, volutamente naturale, cattura l’essenza del “realismo magico” di Leonberg.
Un film sull’amore, non sulla paura
Dietro le ombre e i fantasmi, Good Boy è prima di tutto un film sull’amore e sulla fedeltà. Indy non capisce cosa stia accadendo, ma capisce che Todd è in pericolo, e che deve proteggerlo a ogni costo. Questa prospettiva rovescia completamente la grammatica dell’horror: l’eroe non è l’uomo che affronta il mostro, ma l’animale che si sacrifica per amore.
È qui che Leonberg tocca corde emotive potentissime. La paura di Indy è la paura di ogni creatura che ama senza comprendere. E quando il film rivela la sua dimensione metaforica – la malattia del padrone, vista dal cane come una possessione – l’orrore si trasforma in compassione.
Nonostante la semplicità dei mezzi, il regista costruisce un racconto che parla di perdita, di impotenza e di quella forma di devozione silenziosa che solo un cane può incarnare. In un panorama horror spesso dominato da sangue e urla, Good Boy sceglie la via dell’empatia.
Tra Poltergeist e poesia domestica
Leonberg cita apertamente i grandi classici del genere – Poltergeist in primis – ma li filtra attraverso una sensibilità personale, più vicina alla malinconia di un film indipendente che all’horror tradizionale. La sua capacità di costruire il soprannaturale in spazi ordinari rende Good Boy un progetto tanto piccolo quanto ambizioso. Ogni dettaglio, dal suono di un passo al battito accelerato di Indy, concorre a creare una tensione costante che non esplode mai del tutto, mantenendo lo spettatore in un equilibrio inquietante tra realtà e allucinazione.
L’eleganza con cui Leonberg bilancia l’elemento spaventoso con quello emotivo colpisce. Non c’è mai ironia, né distacco: il film crede sinceramente nella sua storia, e proprio per questo riesce a far paura.
L’horror più fedele dell’anno
Good Boy è un piccolo miracolo di inventiva. Con risorse minime, Ben Leonberg costruisce un’esperienza sensoriale, intensa e profondamente toccante. È un horror che parla di fantasmi, ma anche di perdita, malattia e amore incondizionato. E soprattutto, è un film che guarda il mondo attraverso occhi diversi – quelli di un cane che non può spiegarsi l’orrore, ma sa riconoscere il male.
Non è un film perfetto: a tratti la narrazione si allunga, e il finale potrebbe apparire criptico per chi cerca una risoluzione tradizionale. Ma nel suo piccolo, Good Boy rappresenta una delle idee più originali viste nel cinema indipendente recente.
È un omaggio ai cani, alla loro lealtà, e a quella forma di amore puro che non ha bisogno di parole.
Good Boy
Sommario
In un panorama horror spesso dominato da sangue e urla, Good Boy sceglie la via dell’empatia.