Il grande silenzio (Die grosse Stille), diretto da Philip Gröning nel 2005, è un’opera rara e radicale che ha segnato un punto di svolta nel cinema documentario contemporaneo. Girato all’interno del monastero della Grande Chartreuse, nei pressi di Grenoble, il film porta sullo schermo la quotidianità dei monaci certosini, una delle comunità religiose più severe e impenetrabili della Chiesa cattolica. Per la prima volta, la macchina da presa riesce a penetrare questo universo chiuso e silenzioso, mostrando al pubblico un mondo sospeso nel tempo, dove la preghiera, il lavoro manuale e la contemplazione scandiscono ogni gesto.
Il progetto nacque da un rapporto di lunga fiducia: Gröning aveva chiesto ai certosini già negli anni ’80 di poter filmare la loro vita, ma l’autorizzazione arrivò soltanto 16 anni dopo. Una volta ottenuto il permesso, il regista trascorse mesi nel monastero, vivendo alle stesse condizioni dei monaci, senza troupe, senza luci artificiali, immerso nella stessa routine di austerità e silenzio. Questa scelta radicale conferisce al film un carattere unico: non un semplice documentario, ma un’esperienza sensoriale che immerge lo spettatore nella spiritualità quotidiana dei certosini.
Con i suoi 160 minuti privi quasi del tutto di dialoghi, basati su immagini contemplative e su suoni essenziali, Il grande silenzio non racconta una storia tradizionale ma trasmette un’esperienza: il ritmo del tempo, la ripetizione dei riti, la solennità della natura, la quiete interiore. È un cinema che abbandona la parola per ritrovare il senso profondo dell’immagine e del silenzio, chiedendo allo spettatore di abbandonarsi a una dimensione meditativa e ipnotica, fuori dal tempo e dalle distrazioni del mondo moderno.
L’ordine certosino e l’eccezionalità del film
L’ordine dei Certosini è considerato una delle confraternite più rigide della Chiesa cattolica. La loro vita quotidiana, scandita da regole secolari, è rimasta a lungo nascosta agli occhi esterni. I turisti non hanno accesso ai loro spazi, e prima di Gröning le riprese all’interno della certosa erano state pressoché inesistenti.
Questo film rappresenta quindi un documento unico, frutto di una relazione di fiducia costruita negli anni tra il regista e il Priore Generale dell’ordine. Il contratto siglato stabiliva che per almeno sette anni nessun altro avrebbe potuto girare nella Grande Chartreuse: un’esclusiva che ha reso l’opera ancora più preziosa e irripetibile.
Gröning non si è limitato a osservare: ha condiviso la vita monastica, partecipando al silenzio e alla disciplina del convento, diventando parte integrante del contesto che stava filmando.
L’analisi: il cinema come esperienza
Non è facile parlare di Il grande silenzio. Non lo è mai quando si affronta un film che rifiuta i codici narrativi tradizionali. Qui la parola è quasi del tutto assente, eccezion fatta per le preghiere corali o per la toccante testimonianza di un monaco cieco che, verso la fine, afferma di non provare dolore per la sua cecità, ma gioia nell’avvicinarsi a Dio.
Gröning ha compiuto un’impresa estrema: un film di due ore e quaranta senza dialoghi, girato con una sola telecamera, senza luci artificiali, basato su inquadrature fisse e sulla ripetizione di gesti quotidiani. Una scelta che, se da un lato appare assurda, dall’altro si giustifica pienamente nel contesto monastico.
Un cinema povero, ma essenziale
Il film si avvicina per rigore al “dogma”, ma ciò che ne emerge è un cinema di pura osservazione, quasi cinéma vérité. Davanti all’obiettivo i monaci pregano, leggono, cucinano, si prendono cura delle piante e degli animali, riparano scarpe e vestiti. Ogni gesto, anche il più banale, è investito di significato.
La narrazione è scandita da primi piani, sequenze dell’ambiente naturale e cartelli su fondo nero con citazioni bibliche. Non ci sono virtuosismi formali: solo qualche effetto di pellicola invecchiata o l’uso del grandangolo per sottolineare la profondità.
Il film appare come un “assurdo”, perché racconta un’esistenza che agli occhi del mondo moderno può sembrare altrettanto assurda: un taglio netto con il mondo esterno, una vita dedicata a preghiera, meditazione e silenzio.
Tra Malick e Tarkovskij
Pur centrato sulla fede, Il grande silenzio non è un film religioso in senso convenzionale. Ciò che è trascendente non viene mai mostrato, ma resta implicito, come una corrente sotterranea che attraversa immagini fortemente immanenti: la neve, le piante, i corsi d’acqua, gli oggetti quotidiani, i gesti ripetuti dei monaci.
Il linguaggio visivo richiama a tratti Malick e Tarkovskij, per la capacità di cogliere la spiritualità nel dettaglio naturale e nel rito quotidiano. Perfino i momenti di gioco dei monaci – come quando scivolano su un pendio innevato – diventano parte di un rituale dell’immanente che allude al trascendente.
Conclusione
Con Il grande silenzio, Gröning ha realizzato un’opera che non si limita a documentare: offre un’esperienza di immersione totale in un mondo fuori dal tempo, in cui la vita scorre lontana dal frastuono contemporaneo.
Che lo spettatore vi colga un’esperienza mistica o semplicemente un affascinante esercizio di osservazione dipende dalla sua sensibilità. Ma ciò che resta è la forza di un cinema che riesce, con mezzi poverissimi, a restituire la densità spirituale di una vita interamente dedicata al silenzio e alla contemplazione.
Il grande silenzio
Sommario
Un documentario unico e radicale: Il grande silenzio di Philip Gröning apre le porte della Grande Chartreuse, mostrando la vita quotidiana dei monaci certosini. Un’esperienza immersiva di silenzio, ritualità e contemplazione, tra cinema povero e spiritualità profonda.

