Il mio amico Tempesta: recensione del film di Christian Duguay

Il regista canadese torna al cinema con un nuovo racconto al cui centro c'è il rapporto fra un uomo e il suo amico a quattro zampe. E soprattutto... le proprie passioni

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Non ridere papà, io diventerò un fantino.” – Il mio amico Tempesta Il cavallo. Sono tante le culture che hanno venerato questo animale nel corso della storia, simbolo non solo di libertà, ma anche di estrema forza. Al suo essere possente e nobile, che indubbio ne decreta la bellezza, bisogna affiancargli il merito d’essere un fedele compagno per l’uomo, tanto che il loro rapporto è stato perfino oggetto di analisi nel tempo.

 

La relazione cavallo-cavaliere è caratterizzata da una specifica connessione emotiva, nella quale mutuo rispetto e fiducia reciproca sono principi fondamentali e imprescindibili. Ecco perché nel cinema sono molti i registi che hanno attinto da questo speciale legame, traslando in linguaggio cinematografico storie intime, volte a dimostrare quanto l’unione fra uomo e animale possa essere potente esattamente come quella fra simili. Ed è di questo che Christian Duguay vuole parlare nel suo nuovo film Il mio amico Tempesta: di un amore senza tempo, che ha la sensibilità giusta per dialogare con tutti e scavare in profondità, arrivando dritto al cuore. La pellicola è tratta da un romanzo per ragazzi che si intitola Tempete au haras di Christophe Donner, e sarà nelle sale cinematografiche dal 14 settembre, distribuito da Eagle Pictures.

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Il mio amico Tempesta, la trama

Quanto può essere magico nascere insieme ad un puledro? Domanda forse strana, ma se immaginata in un contesto in cui vivere a stretto contatto con la natura è all’ordine del giorno, allora non lo è più. Questo è quello che succede a Zoé, la cui madre Marie (Mélanie Laurent), veterinaria della sua stessa scuderia, partorisce nell’esatto momento in cui sta assistendo Bella Intrigante, una cavalla da corsa, in un parto difficoltoso. È quell’attimo, quella connessione, che alimenta la passione di Zoé per i cavalli, qualcosa che ha dentro dalla nascita, si potrebbe dire, e che non può smettere di crescere, soprattutto quando crea con Tempesta, nuova figlia di Bella Intrigante, un binomio straordinario.

Una notte, però, a causa di un forte temporale che si abbatte su tutta la scuderia, i cavalli si imbizzarriscono e nel tentativo di metterli al sicuro, Zoé si ritrova sbattuta a terra da Bella Intrigante e poi schiacciata da Tempesta. Rimasta disabile, la bambina è costretta ad affrontare un lungo percorso di riabilitazione, che la allontana lentamente dal mondo equestre. Fino a quando il Grand Prix d’Amerique non la chiama a rapporto: Tempesta è l’ultima speranza: se non vince lei, il ranch di famiglia potrebbero chiudere. Ma la cavalla si fa montare solo in un certo modo e forse il destino vuole che sia proprio Zoé, che nel frattempo ha trovato una soluzione per salire ancora in sella, a farlo…

Sulla scia di un cult

Che a Duguay interessasse l’amicizia fra un uomo e il proprio compagno a quattro zampe, e la lealtà reciproca costruita secondo le leggi del cuore, è in realtà chiaro da diversi anni. Non è la prima volta che il regista affronta l’argomento, e soprattutto che esplora il mondo equestre, principalmente delle corse: basti pensare a Jappeloup, uscito dieci anni fa. Ma senza andare troppo indietro, uno degli esempi più recenti è Belle & Sebastien – L’avventura continua. Il focus rimane in ogni caso un animale, il suo mondo, la sua devozione. E quanto essi fungano molto spesso da terapia, da anti-stress, diventando una piccola oasi di felicità grazie alla quale si fatica meno ad affrontare la quotidianità.

Per Il mio amico Tempesta, Duguay sembra però voler seguire le tracce di un film specifico: L’uomo che sussurrava ai cavalli, diretto e interpretato da Robert Redford. Un racconto, dunque, di vera passione, seppur all’inizio fatichi a ingranare la marcia. I primi trenta minuti sembrano infatti non avere il carburante necessario per lanciare la storia. Nel seguire le diverse fasi di Zoé, il regista in un primo momento affatica la narrazione, allungandola un po’ troppo, tanto da spostare eccessivamente in avanti l’incidente scatenante (che ricordiamo non dovrebbe superare la ventina di minuti massimo). Dopo un primo atto che va abbastanza a rilento, di cui si poteva sicuramente tagliare qualche scena superflua, il film si scioglie e inizia ad acquistare movimento e ritmo. Seguiamo Zoé nella sua crescita, la vediamo prendere confidenza con la scuderia, approcciarsi a cavalli di razze diverse e poi legarsi ad uno in particolare, la sua Tempesta. Tempesta di nome e di fatto, che le regalerà i ricordi più belli della sua adolescenza.

Vivere delle proprie passioni

È dunque dal secondo atto in poi che Il mio amico Tempesta si concretizza, lavorando su alcune tematiche dalla grande forza emotiva, operando su sequenze sì dalla lacrima facile, ma che non scadono mai nel lezioso o nel posticcio. Duguay indugia spesso sulla sua protagonista, una Charlie Paulet mai fuori luogo e sempre misurata nel restituire il dolore di una bambina che vede infrangersi il proprio sogno davanti agli occhi. Fissando la macchina da presa su di lei, il regista ne intercetta ogni passaggio, decisione e sguardo, che la portano ad una chiara consapevolezza di sé e del suo animale. Insieme a Zoé corriamo. Lei, gradualmente, corre: incontro alla vita, a cavallo, verso il suo sogno che, dopo tanti sacrifici, vede alla fine farsi realtà. Tutti gli step vengono superati, Duguay non vuole lasciare niente al caso e non dà niente per scontato.

Perché è solo in questo modo che può rendere vero il legame con la sua Tempesta, la quale la porterà alla vittoria del Grand Prix d’Amerique. Ed è così, attraverso una particolare storia di formazione, che Il mio amico Tempesta parla di disabilità, di ippoterapia, di resilienza, di paure che si superano con la forza delle proprie passioni. Perché quando si ama qualcosa e la si ama con anima, corpo e cuore, la fatica non la si percepisce. E neanche l’invalidità. Come Zoé, che pur non muovendo le gambe riesce comunque a montare il suo cavallo perché mossa da sentimenti di fiducia verso se stessa in primis e poi verso l’animale. Pur con qualche difetto iniziale, e nonostante non si faccia riconoscere per l’originalità del racconto, Christian Duguay ci dona un film delicato, dolce nella sua messa in scena, toccante. Profondo. Che si fa guardare nonostante le sue prevedibili progressioni e non chiede tanto, se non quello di ricordarci quanto sia importante non lasciarsi abbattere dalle difficoltà che si incontrano lungo il cammino. E quanto sia fondamentale l’empatia con un animale. Qualsiasi esso sia.

Sommario

Duguay porta in scena un racconto d'amore senza tempo, quella fra uomo e cavallo. Seguendo la stessa traccia del film cult L'uomo che sussurrava ai cavalli, parla dell'importanza di affrontare la propria disabilità e di quanto l'amore con un animale possa fungere da motore per superarla. Nonostante qualche lungaggine di troppo, il regista non perde mai il suo punto di vista, regalando un film delicato e profondo, senza mai scivolare nel sentimentalismo.
Valeria Maiolino
Valeria Maiolino
Classe 1996. Laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza, con una tesi su Judy Garland e il cinema classico americano. Articolista su Edipress Srl, per Auto.it, InMoto.it, Corriere dello Sport e Tutto Sport. Approda su Cinefilos.it per continuare la sua carriera nel mondo del cinema e del giornalismo, dove attualmente ricopre il ruolo di redattrice. Nel 2021 pubblica il suo primo libro “Quello che mi lasci di te” e l’anno dopo esce il suo secondo romanzo con la Casa Editrice Another Coffee Stories, “Al di là del mare”.

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