E’ il 1979. Juan ha
dodici anni ed è argentino, ma finora ha vissuto in esilio a Cuba
con la famiglia. I genitori e lo zio militano nei Monteneros,
organizzazione clandestina che combatte il regime dittatoriale di
Videla, e per questo sono stati costretti ad allontanarsi dal
Paese. Ma è giunto il momento di rimpatriare, non senza rischi.
Tornare a Buenos Aires significa mettere in pericolo la vita di
tutti loro e il piccolo Juan dovrà dare il suo contributo per far
funzionare le cose. Tanto per cominciare, dovrà imparare a vivere
sotto mentite spoglie: d’ora in poi lui sarà per tutti Ernesto.
Come recita il titolo stesso del film di Benjamín Ávila, Infancia clandestina , la storia di Juan è quella di un’infanzia vissuta in clandestinità, dall’esilio cubano al trasferimento in Argentina sotto falsa identità. Juan diventa una sorta di militante involontario, e la scelta di quel nome forse ha un significato più profondo di quanto non si immagini. Adesso Juan deve adeguarsi lui stesso alle regole di clandestinità e apparire disinvolto nel seguirle una ad una. Ne va della vita dei suoi cari. Ciò vuol dire usare un nome che non è il suo, parlare con un accento che non è il suo, festeggiare un compleanno che non è il suo. Ma Juan/Ernesto accetta tutto di buon grado, incoraggiato dall’amore e dall’entusiasmo dei genitori, che malgrado l’attività rivoluzionaria sono sempre affettuosi e presenti. Così come lo zio Beto, che capisce il nipote meglio di chiunque altro e cerca di rendere più leggera e sopportabile la difficile situazione in cui si trova. Tutto fila più o meno liscio, finché non interviene un fattore imprevisto: l’amore.
Un cast intenso (in cui
spicca il giovanissimo Teo Gutierrez Moreno nei panni di
Juan/Ernesto) e un regista ispirato (dalla sua stessa biografia) ci
offrono uno sguardo insolito sulla dittatura che ha a lungo
oppresso l’Argentina, regalandoci un film davvero emozionante. Gli
eventi di quegli anni sono tristemente noti a tutti, ma la
prospettiva del regista non è quella ‘familiare’ dei documentari e
dei film di denuncia prodotti finora. Ávila sceglie, infatti, di
filtrare la Storia attraverso gli occhi di un bambino: ci racconta
la quotidianità della vita sotto il regime nei suoi aspetti più
‘ordinari’, anche se quanto vissuto dal piccolo Juan è
assolutamente straordinario. Qui la violenza delle
azioni lascia spazio alla ‘violenza’ dei sentimenti, all’intensità
delle emozioni che Juan e la sua famiglia provano di volta in
volta. Tenerezza, dolcezza, amore, passione, paura, rabbia, dolore:
questi sono i protagonisti di Infancia clandestina ,
e la violenza vera e propria, quella del sangue e dei soprusi,
resta sullo sfondo, appena accennata, percepita come qualcosa di
onnipresente, ma sospesa fuori dallo schermo. Ávila non la mostra
quasi mai e nelle rare occasioni in cui lo fa, sceglie di usare
l’animazione (un’animazione dai tratti moderni, assai suggestiva),
per stemperare i toni e riportarla ad una dimensione quasi
‘fantastica’ (come aveva fatto Tarantino nel primo volume di
KillBill). Tanto quella violenza purtroppo la conosciamo
già, è scritta nella Storia; ma ci sono altre piccole storie che
valgono la pena di essere raccontate.