Kim Novak’s Vertigo: recensione del documentario di Alexandre O. Philippe – Venezia 82

Il film è stato presentato a Venezia 82 in occasione del Leone d'Oro alla carriera all'attrice.

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Alexandre O. Philippe ha fatto del cinema di culto la sua ossessione: Alien, Lynch, Oz… e ora Hitchcock. Con Kim Novak’s Vertigo, presentato Fuori Concorso a Venezia 82, il regista torna a corteggiare il mito con la stessa reverenza di un chierichetto davanti all’altare. Ma se il fantasma di Hitchcock aleggia sul documentario, lo spirito che davvero domina la scena è quello di Kim Novak, 92 anni, che accetta finalmente di guardarsi indietro. Peccato che l’operazione sia più un atto di devozione che un’analisi. Philippe non costruisce un ritratto critico, ma una specie di confessionale vintage, un film che gira in tondo come le spirali di Saul Bass.

Dalla diva riluttante all’attrice “per caso”

Novak racconta la sua carriera come un lungo equivoco: da Marilyn Novak, modella di frigoriferi, a Kim, “la grassa polacca” secondo Harry Cohn, fino al ruolo della vita in Vertigo. L’attrice insiste nel definirsi una “re-actor”, più che una vera interprete, un corpo che reagisce sul set più che un’artista consapevole. Philippe, affascinato da questa auto-svalutazione, non osa contraddirla.

Eppure, se i racconti personali conservano un indubbio fascino, l’impianto filmico li trasforma in un loop ripetitivo: Hollywood come trauma, Hitchcock come padre spirituale, la fuga dall’industria come liberazione. Non c’è contraddittorio, non c’è distanza. Solo un microfono lasciato acceso, con qualche inserto di repertorio e un montaggio che prova a somigliare a un thriller psicanalitico.

Il titolo allude ovviamente a Vertigo, ma anche al senso di vertigine vissuto da Novak nei suoi anni hollywoodiani. Philippe abbraccia la metafora con zelo quasi scolastico: cerchi, spirali, dissolvenze che inseguono l’estetica di Bass senza mai avvicinarne la potenza. Le sequenze dedicate ai quadri dell’attrice vorrebbero mostrare una rinascita artistica, ma finiscono per accentuare l’impressione di un film che non sa scegliere se essere saggio critico, confessione intima o catalogo illustrato.

Il momento culminante, il ritrovamento dell’iconico tailleur grigio, si risolve in una scena carica di pathos ma povera di cinema: un vestito conservato in soffitta, un’attrice che lo contempla, il pubblico invitato a commuoversi. È davvero troppo poco per un documentario che ambisce a dialogare con uno dei capolavori assoluti della settima arte.

Il rischio dell’agiografia

Sembra che Kim Novak’s Vertigo sia stato presentato fuori concorso per una forma di cortesia istituzionale. Philippe costruisce un film che non mette mai in discussione il proprio oggetto, preferendo cullarsi nell’aura del mito. Hitchcock diventa un’icona, Novak un’icona resiliente, e tutto ciò che resta è un esercizio di nostalgia.

Il problema non è la venerazione (legittima) ma la mancanza di sostanza critica. Al di là dell’aneddotica (le dita dei piedi di James Stewart, il soprannome offensivo di Cohn, il ritiro in Oregon), rimane poco.

Kim Novak’s Vertigo
1.5

Sommario

Philippe costruisce un film che non mette mai in discussione il proprio oggetto, preferendo cullarsi nell’aura del mito.

Chiara Guida
Chiara Guida
Laureata in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è una gionalista e si occupa di critica cinematografica. Co-fondatrice di Cinefilos.it, lavora come direttore della testata da quando è stata fondata, nel 2010. Dal 2017, data di pubblicazione del suo primo libro, è autrice di saggi critici sul cinema, attività che coniuga al lavoro al giornale.

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