La passion de Dodin Bouffant, recensione del film con Juliette Binoche – Cannes 76

Juliette Binoche e Benoît Magimel di nuovo insieme per Trần Anh Hùng

La passion de Dodin Bouffant recensione

Molto atteso dal pubblico francese, che non vedeva Juliette Binoche e Benoît Magimel insieme dai tempi di I figli del secolo (quando iniziò la loro relazione, conclusasi nel 2003), rischia una ingiusta sordina quel La passion de Dodin Bouffant che segna un altro dei grandi ritorni di questo Festival di Cannes 2023. A distanza di più di cinque anni dall’ultimo Éternité e oltre dieci dal precedente Norwegian Wood, infatti, è un piacere registrare la presenza del Trn Anh Hùng di Il profumo della papaya verde, vincitore del Leone d’oro 1995 con Cyclo. Per altro in un film nel quale la cucina è sovrana, più della coppia di protagonisti.

 

In cucina con Juliette e Benoît

Francia, 1885, il famoso gastronomo Dodin Bouffant passa le sue giornate cucinando, studiando menu e condividendo la sua passione con una ristretta cerchia di amici, i pochi in grado di capirlo ed apprezzare la sua arte fino in fondo. Ad aiutarlo, da venti anni, la bravissima Eugénie, cuoca in grado di trasformare in perfette preparazioni le creazioni del suo genio e vera anima della casa, della quale tiene in ordine l’orto e gestisce la cucina. Un ruolo fondamentale, che la donna assolve con passione e che la rende indispensabile al buongustaio, con il quale rapporto professionale e personale si sono andati mescolando, negli anni, fino a far nascere un sentimento dalla reciproca ammirazione. Tuttavia, Eugénie non è sicura se legarsi a Dodin, che in un momento particolare della loro vita si dimostra pronto a mettersi al suo servizio e cucinare per lei.

The Pot au Feu, un bollito d’altri tempi

Sono pochi i film che iniziano con il primo piano di un sedano rapa, ma forse l’originalità di questo gradito ritorno del regista della Trilogia Vietnamita sta tutta in questo incipit. Nel quale colpisce subito lo stile della ex pasticcera di Chocolat qui in versione contadina, elegantissima con il suo cappello di paglia portato sulle ventitrè. Una grazia che la sua Eugénie mette in tutto quello che fa, anche mentre danza tra pentole e fuochi nell’esercizio delle sue funzioni, come vediamo nella lunghissima scena – quasi mezz’ora – che introduce la storia e il suo rapporto con il personaggio creato dallo scrittore svizzero Marcel Rouff nel romanzo del 1920 “La vie et la Passion de Dodin-Bouffant, Gourmet (The Passionate Epicure)” e ispirato alla figura del francese Jean Anthelme Brillat-Savarin.

Una eleganza affettata, forse, ma certo coerente con il contesto in cui ci si muove (non solo per la scelta di un castello dell’Anjou come location principale) e nel quale vivono tutti i protagonisti, molto lontani da noi e dal nostro quotidiano proprio per questa loro appartenenza a una sorta di casta di gourmet che a un film in costume ambientato alla fine del XIX secolo. Difficile partecipare emotivamente alla storia, d’altronde, concentrata in gran parte sulle splendide e affascinanti preparazioni culinarie che vediamo riprese con attenzione, ritmo e gusto dei dettagli. Forse anche troppo, visto che in alcuni casi la verosimiglianza cede il passo al piacere per la composizione artistica con delle nature morte piuttosto ingiustificate (di lattughe risparmiate o carni alla mercé di insetti e intemperie) sullo sfondo dell’azione che vediamo svolgersi.

Ricette e immagini da stella Michelin

Ma sono dettagli, appunto, e secondari. Ché arricchiscono le tante sequenze nelle quali il movimento sovrasta il dialogo, e piatti, ricette, tempi di cottura, impiattamenti e i meravigliosi colori di questi veri e propri affreschi culinari (realizzati grazie anche alla consulenza dello chef Pierre Gagnaire, 14 stelle Michelin) almeno fino a quando non interviene un nuovo elemento a modificare il rapporto tra i due cuochi e la direzione del film. Che dall’amore per il cibo – assolutamente mai abbandonato, anche perché strumentale a questo secondo livello – passa a rappresentare il particolarissimo sentimento che lega Dodin ed Eugénie. A quanto pare sono due le passioni del cosiddetto “Napoleone della gastronomia“, che il regista aspettava di raccontare almeno dal 2017.

Un tempo molto ampio che in qualche modo corrisponde alla ‘cottura a fuoco lento’ dello spettatore, avvolto dai colori caldi della fotografia di Jonathan Ricquebourg, interrotti solo dall’alternanza di buio e luce didascalicamente utilizzata a rappresentare gli stati d’animo del padrone di casa. Il Pot-au-feu stesso (dal titolo internazionale del film), d’altronde, è un bollito contadino tipico del nord della Francia nel quale manzo e verdure vengono cotti a bassa temperatura per ore, emblematico del valore che il regista da alla memoria, le radici e le stagioni, della vita prima di tutto. Temi toccanti, importanti, che fanno solo da corollario a un lungo carnevale ‘for foodies’ e alla digressione drammatica più che romantica, che poco spazio lascia anche a una ironia che solo si intuisce in alcune battute della donna. Una figura troppo subordinata, se osservata con una sensibilità più moderna e rispettosa di spazi e diritti, e che non sembra riuscire ad rendere l’importanza datale in origine in questa celebrazione del mangiare e del vivere bene.

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