La Passione: recensione del film di Carlo Mazzacurati

La Passione di Carlo Mazzacurati arriva nelle sale italiane dopo la partecipazione in Concorso alla 67° Mostra del Cinema di Venezia. Si tratta di una commedia dal buon ritmo, protagonista Silvio Orlando nei panni di Gianni Dubois: un regista di mezza età in crisi creativa, alle prese con due problemi: deve trovare in fretta un’idea per un film da girare con una giovane attrice di fiction (Cristiana Capotondi) – potrebbe rappresentare la svolta della sua carriera, mai decollata.

 

A ciò si aggiunge un increscioso inconveniente nella sua casa in Toscana: una perdita nel bagno danneggia un affresco del ‘500 nell’attigua chiesa del paese. Dubois è costretto quindi a lasciare Roma per recarsi in Toscana, dove il sindaco (Stefania Sandrelli) e l’assessore (Marco Messeri) minacciano di denunciarlo ai Beni Culturali, a meno che non accetti di dirigere la Sacra Rappresentazione del Venerdì Santo, da organizzare in pochi giorni. Gli verrà in soccorso un ex carcerato di nome Ramiro (Giuseppe Battiston), estimatore di Dubois e con una grande passione per il teatro. Nonostante un susseguirsi di imprevisti dai risvolti comici, che li vedranno alle prese, tra l’altro, con un attore di pessima qualità ma di buona memoria (Corrado Guzzanti), cui affideranno il ruolo del Messia, la Sacra Rappresentazione andrà in scena e otterrà un buon successo. In più, qui Dubois incontrerà una giovane barista polacca (Kasia Smutniak), attorno alla quale costruirà la trama del suo nuovo film.

La Passione, il film

Dunque un nuovo inizio, una sorta di resurrezione anche per Dubois, che arriva proprio quando il destino sembrava accanirsi contro di lui e contro l’altro personaggio che vorrebbe risorgere dalle ceneri del proprio passato: Ramiro. La vita sembra infatti riportare l’ex ladro sul binario che voleva abbandonare, ma avrà il suo riscatto. Dunque, gli ingredienti paiono essere quelli che avevamo già trovato e apprezzato dieci anni fa in “La lingua del Santo” – anche lì seguivamo la tragicommedia dei due protagonisti, ladri improvvisati che la ricca società padovana aveva relegato ai margini. Tutto avrebbe potuto funzionare alla perfezione, sennonché  qui ci si muove spesso su un registro parodistico-caricaturale. L’attore Manlio Abbruscati, interpretato da Corrado Guzzanti,  ne è l’emblema: è un personaggio dai toni macchiettistici, lo stesso tipo di macchietta che Guzzanti ottimamente interpreta in teatro ma che, trasposta al cinema, non ha la stessa efficacia. Alcune situazioni appaiono forzate, ai limiti del surreale, senza però che si faccia una scelta chiara in questa direzione.

Al contrario, ai toni da parodia in La Passione si mescola la mimesi realistica, generando nello spettatore un senso di straniamento. I meccanismi comici, poi, sono spesso reiterati e ciò li rende poco incisivi. In questa chiave parodistica, l’analisi sociale è più suggerita che approfondita. Bersaglio di Mazzacurati sono i mali italiani: le istituzioni, che per prime utilizzano la logica del favore e del ricatto, i servizi al cittadino che non funzionano, e soprattutto, il mondo del cinema, che appare imbrigliato in logiche commerciali, senza spazio per la creatività; un cinema che vuole competere col successo di massa delle fiction televisive e non lo fa mantenendo la sua specificità, ma conformandosi al modello proposto dalla TV. Il risultato è, però, meno efficace che in “La lingua del Santo”, in cui ironia e leggerezza accompagnavano, senza banalizzarla né sovrastarla, una riflessione sulla dimensione sociale ed esistenziale, conferendo levitas alla materia trattata. Il regista sceglie qui un registro più spiccatamente comico, a tratti farsesco, nel quale però non sembra trovarsi molto a suo agio.

Ricco il cast di La Passione: accanto a Silvio Orlando, già scelto da  Mazzacurati nel ’92 per “Un’altra vita”, Giuseppe Battiston, che ben interpreta il personaggio forse più complesso del film, confermandosi come una sicurezza del nostro cinema. E poi Stefania Sandrelli, di nuovo in coppia con Marco Messeri, dopo La prima cosa bella di Virzì. Produzione affidata a Domenico Procacci e Fandango, in collaborazione con Rai Cinema.

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