La quinta stagione recensione

 

La quinta stagione recensione

La quinta stagione è come un quadro metafisico di De chirico, dove il tempo e lo spazio sono vittime di un incantesimo che congela la vita: schiude lo scrigno delle anime mortali per rivelare il sacro che è insito nella natura delle cose, dell’essere e del non essere su questo mondo. Ma è anche un dipinto fiammingo di Brueghel dove figurine minuscole e laboriose come formiche popolano paesaggi innevati che preesistono, imponenti e indifferenti, alla transitoria presenza umana. Ed è un film di Bunuel nella misura in cui un angelo sterminatore, senza volto e onnipresente, si oppone all’agire dell’uomo, lo sovrasta, lo annebbia, lo sconfigge. E ricorda il cinema di Haneke quando racconta senza filtri il marcio delle dinamiche sociali, la brutalità e il cinismo della comunità che nessuna maschera bianca, sia essa un cappuccio o una forma animale, può nascondere e redimere. E’ il romanzo per immagini di Shane Jones, Io sono febbraio, per l’analoga minaccia misteriosa di una calamità naturale, però qui descritta senza le attenuanti della fiaba, dell’immaginazione o del surreale. E’ una variante sul tema di Melancholia di Lars Von Trier, per le atmosfere opprimenti e il lirismo della rappresentazione che trasforma i luoghi familiari in sconosciuti e i personaggi in sculture michelangiolesche, laddove la pietà ha preso il posto del dolore. Ed è il movimento herzoghiano della cinepresa che estrania e sospende la visione.

Ma, innanzitutto, è il film di Jessica Woodworth e Peter Brosens, una coppia di registi belgi capaci con quest’opera di evocare una grandezza trascendente e universale e, parallelamente, di renderla reale, tangibile a ogni inquadratura e ineluttabile, nel fluire ciclico degli eventi: poi disciolto in una perenne e tragica presentificazione. Perché in quell’isolato villaggio delle Ardenne l’inverno si è fermato, ha irrigidito il suo alito mortifero e respinto l’avvento della primavera, sottraendo alla terra l’impulso alla rigenerazione e scatenando negli abitanti quello animale di sopravvivenza.  Quanto prima era fonte rituale di incontro e di condivisione ora è soltanto motivo di arida contesa e di esplosioni violente ai danni di chi, per caso e per fragilità, è assunto a capro espiatorio della situazione, condannato a patire su di sè una colpa che è di tutti, come afferma con un rimasuglio di saggezza una donna della cittadina. Si assiste così a una progressiva e irreversibile perdita di fratellanza e carità, contro cui neanche la purezza intatta di due adolescenti, Alice (Aurélia Poirier) e Thomas (Django Schrevens) potrà lottare. Una parabola biblica e apocalittica che non risparmia sul peccato, sul male e sulla punizione.

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