La poetica (e l’etica) documentaria del cinema-verità di Jean-Pierre e Luc Dardenne prosegue imperterrita su di un terreno di perfetta coerenza estetico-narrativa da oltre due decenni, trovando proprio ne La ragazza senza nome una condensazione perfetta di un cinema che antepone il contenuto morale sull’esistenza del quotidiano a una forma rimasta sempre essenziale ma al contempo lucida e graffiante. La decima pellicola firmata dai fratelli belgi appare di fatto come la più “cinematografica”, in quanto, mentre nella palma d’Oro Rosetta la ruggine e il vento del reale spingevano insistentemente per bucare la sottile membrana dello schermo e invadere l’extra diegetico spettatoriale, qui il filmico rimane conchiuso nei bordi di un formato vicino al 4:3 che comprime fatti, volti ed emozioni in uno spazio ben delimitato nel quale la sola presenza fisica della giovane – ma già “vissuta” – dottoressa Davin incolla il fruitore all’umano e alle sue peripezie. In questo loro cinema baziniano “più vero del vero” i Dardenne decidono di replicare la formula della ricerca a tappe già ben delineatasi con Due giorni, una notte.
In La ragazza senza nome un’ora dopo la chiusura d’esercizio la dottoressa Jenny Davin (Adèle Haenel), medico condotto di un piccolo sobborgo alle porte di Liegi, rifiuta di rispondere a una chiamata al citofono del suo ambulatorio. Il giorno seguente un’indagine di polizia rivela che una donna dalle generalità ignote è stata trovata morta sulle rive di un canale e dalle registrazioni delle videocamere di sorveglianza Jenny scopre che la giovane aveva provato a chiamare aiuto proprio presso di lei prima di fuggire spaventata. Rosa da un senso di colpa che si fa via via sempre più lacerante la dottoressa da inizio a un’ossessiva e catartica ricerca dell’identità della povera vittima, generando impercettibili ma fatali conseguenze che ricadono via via sui propri scarni rapporti sociali e sulla propria carriera in procinto di decollare.
La ragazza senza nome, il film
In questo caso perà la
protagonista è calata in un racconto d’atmosfera che occhieggia al
thrilling poliziesco di detection in cui ci si trova dinnanzi a uno
strano ossimoro: mentre la giovane Jenny – un’intensa
Adèle Haenel bravissima nel celare sotto una
patina di apparente freddezza un turbine di profonde emozioni
sapientemente centellinate – si prodiga ossessivamente per espiare
la propria presunta colpa di omissione di soccorso ricercando
l’identità (e, in senso biblico, il nome) della ragazza uccisa, di
lei non abbiamo alcuna informazione al di fuori di ciò che accade
dinnanzi alla macchina da presa e che rivela la psicologia di una
donna inizialmente “professionale” ma in realtà già disposta a
darsi totalmente agli altri, qualità che verrà in seguito portata
francescanamente all’estremo dal fatto incriminato.
Peccando forse leggermente di didascalismo narrativo ma reggendo sempre ben saldo il timone dell’occhio e del cuore, i fratelli Dardenne ci pongono di forza dinnanzi alla ricerca dell’altro quale strumento per ritrovare autenticamente noi stessi.