La settima musa, recensione del film di Jaume Balaguerò

La settima musa

Il 22 agosto arriverà nei cinema italiani il nuovo lavoro di Jaume Balaguerò, regista spagnolo di fama internazionale votato per lo più al genere horror. L’ascesa del regista catalano iniziò nei primissimi anni duemila, quando si fece notare anche a Hollywood con Darkness, e raggiunse un certo apice grazie a REC, zombie movie del 2007 amatissimo in tutto il mondo e divenuto presto una saga composta da quattro film e un remake americano (Quarantena, 2008). Non stupisce quindi che per il suo ultimo lavoro Balaguerò abbia preso spunto da un romanzo dark di Josè Carlos Somoza, La Dama Numero 13.

 

Il professore di letteratura Samuel Solomon (Elliot Cowan), traumatizzato dalla morte violenta della fidanzata, comincia ad indagare su una serie di efferati omicidi che gli si preannunciano tramite oscure visioni. Con l’aiuto di Rachel (Ana Ularu), scoprirà che esiste un legame tra le morti e i versi dei poeti più importanti di tutti i tempi. E che le Muse che li hanno ispirati sono esseri tutt’altro che amichevoli.

La Settima Musa è un thriller/horror che parla di cultura. E non si limita a farlo sciorinando qualche versetto in rima, ma ne impregna gesti e immagini. A partire dai titoli di apertura, un lampante omaggio al Museo della Specola di Firenze, il primo, l’unico e il più antico repertorio di anatomie umane che nell’intro del film vengono riprodotte in 3D mentre scorrono i nomi di cast e crew. Ma le citazioni fiorentine non finiscono qui, e Balaguerò decide che le prime parole del film siano quelle lette da Dante all’entrata dell’Inferno (Canto III). Splendide, lapidarie, profetiche. Il monito del Vate serve in un certo senso a riassumere l’atmosfera della storia che si viene narrando su pellicola, laddove nell’ “etterno dolore” i protagonisti scendono in un viaggio nell’inferno senza ritorno.

E poi Blake, Byron, Milton, Keats, Yates. Il film dissemina i versetti dei grandi poeti che possono, a seconda del caso, portare amore, pace, morte e distruzione. Perché l’ispirazione è tormento e sofferenza. Il genere horror ci ha fatto assistere a vhs che uccidono, fluidi mortali, pupazzi killer e persino pomodori assassini. Ne La Settima Musa sono i versi immortali che portano guai. E questo espediente risulta stranamente credibile (e nostalgicamente romantico).

Tuttavia la pellicola tende a perdersi nel secondo tempo, dove il plot twist tarda ad arrivare e molte parti sono pleonastiche, colpa anche dello stile di Balaguerò che non ama i tagli netti di scena. Eppure la Settima Musa risulta un film godibile, dove persino il piccolo cameo di Christopher Lloyd è pienamente inserito in una trama in fin dei conti accattivante.

In un panorama cinematografico dove il cinema indipendente, soprattutto quello di genere horror, si fa sempre più celebrato e auto-compiaciuto, il lavoro di Balaguerò si distingue per essere molto personale e originale. Un’opera che sembra quasi non aspettarsi nulla, un sussurro che parla attraverso parole poetiche, croce e delizia di chi le ha composte e di chi le ascolta.

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