Il regista ucraino Vadim Perleman, noto soprattutto per il suo La casa di sabbia e nebbia, che nel 2003 ricevette diverse nomination agli Oscar, torna ad affacciarsi al panorama internazionale con Lezioni di persiano, un dramma ambientato nel 1942 che mostra l’inferno dei campi di concentramento nazisti, in particolare di un cosiddetto campo di transito in Germania.
Sceglie però di farlo da un punto di vista insolito e in un certo senso privilegiato: il microcosmo di una relazione che diventa via via più stretta tra un prigioniero ebreo e un ufficiale delle SS. Una relazione in cui il linguaggio e la parola la fanno da padroni, restituendo dignità alle vittime e riequilibrando, sia pure in minima parte, le sorti.
Lezioni di persiano, la trama
Nel 1942 l’ebreo Gilles, Nahuel Pérez Biscayart, viene arrestato dalle SS nella Francia occupata dai nazisti. La maggior parte degli arrestati con lui vengono brutalmente fucilati poco dopo la partenza. Per salvarsi Gilles dice di non essere ebreo, ma persiano. La menzogna gli salva la vita, dal momento che l’ufficiale Koch, Lars Eidinger, sta cercando proprio un persiano che gli possa insegnare la lingua farsi, avendo deciso dopo la guerra di andare in Iran e aprire un ristorante a Teheran. Gilles scopre presto, però, quanto sia difficile creare ogni giorno parole in una lingua inventata da insegnare all’ufficiale, finché non trova un efficace stratagemma. La sua sopravvivenza è comunque appesa a un filo. Il trattamento preferenziale riservatogli suscita infatti invidie e gelosie sia tra i prigionieri che tra le guardie del campo, come Max, Jonas Nay, ed Elsa, Leonie Benesch, per nulla convinti che Gilles sia davvero persiano.
Lezioni di persiano, un nuovo linguaggio per vivere, far vivere e ricordare
Basato sul racconto Invenzione di una lingua di Wolfgang Kohlhaase, e sceneggiato da Ilya Zofin, Lezioni di persiano utilizza la chiave del linguaggio come metafora di fronte al dramma dello sterminio degli ebrei, come veicolo di riscatto e di memoria. La lingua inventata da Gilles prende vita nella sua mente e poi nella realtà quando viene insegnata a Koch, proprio grazie ai nomi dei prigionieri del campo. Attraverso la parola, gli uomini ridotti a numeri, a massa, disumanizzati e infine uccisi, ritrovano vita e dignità. I loro nomi restano in questa lingua inventata e resteranno poi nella memoria del protagonista, laddove invece lo scritto, i registri dei campi, andranno perduti, bruciati dai nazisti in fuga. Altro tema fondamentale dunque è l’importanza della memoria, da mantenere a qualunque costo. I nomi dei prigionieri, unica cosa che resta di loro in un campo che si riempie e si svuota di continuo, in un ciclo di morte, sono anche quelli che consentono a Gilles di salvare la propria vita.
La relazione tra Gilles e Koch – cui danno corpo le efficaci interpretazioni di Nahuel Pérez Biscayart (120 Battiti al minuto di Robin Campillo, Ci rivediamo lassù di Albert Dupontel) e Lars Eidinger (Sils Maria e Personal Shopper di Olivier Assayas) – non sarebbe possibile senza il tramite di questa lingua, i due resterebbero distanti. Invece grazie ad essa, un legame si crea, consentendo anche a Koch di esprimersi, paradossalmente a pieno, in modo sincero. Il suo personaggio ha così un’evoluzione, seppur parziale.
L’arma più efficace contro il male: l’ironia
Altro aspetto fondamentale del film che riesce ad alleggerire, inaspettato, la narrazione è l’ironia, il sarcasmo che permea la scrittura e restituisce lo sguardo del regista sui nazisti. Si mostrano anche le piccole invidie e rivalità nel campo, come quella tra Elsa, una brava Leonie Benesch (Il nastro bianco di Michael Haneke) e Jana, Luisa-Céline Gaffron. Non mancano neppure i pettegolezzi, per quanto sia strano pensare che ve ne siano in un contesto simile. Ciò può risultare straniante, ma è anche divertente. Il risultato è a tratti una vera messa in ridicolo delle figure dei gerarchi nazisti e dell’intero ambiente in cui si muovono. Si pensi sia a Koch, che al comandante del campo, interpretato da Alexander Beyer. Emblema di questo è appunto la figura di Koch nei panni del discente: qui è lui in posizione subordinata ed è vittima di una vera e propria presa in giro da parte di Gilles, che peraltro avrà su Koch conseguenze. Quest’inversione di ruoli fa sorridere. Attraverso di essa Perelman fa, in un certo qual modo, giustizia, innescando anche una riflessione.
Il film non aggiunge granché al genere cui appartiene, ma risulta piacevole, ben recitato e curato nella ricostruzione realistica, dalle ambientazioni ai costumi di Alexey Kamyshov, a tutta la messa in scena. Le scenografie sono affidate a Dmitri Tatarnikov e Vlad Ogai. La fotografia di Vladislav Opelyants restituisce lo sguardo del regista sul mondo del campo, che dà comunque una visione prevalentemente cupa, plumbea e nebbiosa. Oltre due ore passano senza che ci si annoi, proprio grazie all’alternanza tra dramma e ironia e alle buone prove degli attori. Nonostante la vasta produzione cinematografica sul tema della Shoah, la trattazione non è banale. Questo è già un buon risultato. Distribuito in Italia da Academy Two e Lucky Red, Lezioni di persiano è in sala dal 5 novembre 2020.