Los Colonos, recensione del film di Felipe Gálvez Haberle

Tra western e dramma, il film del cileno Felipe Gálvez Haberle racconta con crudezza lo sterminio del popolo Ona.

Una scena del film Los Colonos
Fonte: The Movie Database

Dopo il passaggio nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2023, Los Colonos di Felipe Gálvez Haberle approda su MUBI dal 7 marzo. Il debutto al lungometraggio del regista cileno assume i contorni di un’epopea western su una Patagonia lasciata all’avidità e alla legge del più forte, in dialogo con altre pellicole che hanno rivisitato il genere cinematografico primordiale, mettendo al centro gli oppressi, come il recente Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese e Jauja di Lisandro Alonso (2014).

 

Los Colonos, la trama: il western si trasferisce in Cile

L’azione si svolge nella Terra del Fuoco, nel 1901, e fa riferimento al prolungato e atroce genocidio del popolo Selknam, conosciuti anche come Ona. Si dice che quando i bianchi si insediarono ci fossero circa 4.000 Ona; all’inizio del XX secolo ne erano rimasti solo 783, quasi tutti rifugiati nelle missioni salesiane con a capo il monsignor Giuseppe Fagnano.

La storia di Los Colonos, divisa in capitoli che danno una progressione all’azione, ruota attorno a uno spietato amministratore di terre (Alfredo Castro) che arruola i servizi di un militare scozzese dalla dubbia fedina penale (Mark Stanley) per sterminare le popolazioni native della zona, i Selknam. Con altri due uomini, un texano e un meticcio (Benjamin Westfall e Camilo Arancibia), parte la spedizione, che dal Cile si dirige verso l’Argentina, dove il confine geografico è impreciso, ma non la proprietà della terra. Questo incontro con la rappresentazione dell'”essere nazionale” insediato in un avamposto con più dubbi che certezze dà vita a un brutale ritratto storico, in cui l’esperto Francisco Moreno (Mariano Llinás) cerca di segnare i limiti geografici. Gálvez Haberle sposta poi la narrazione a sette anni dopo, quando un inviato del presidente Montt arriva a Chiloé per indagare sullo sterminio.

Un viaggio classico, ma in territori inesplorati

Los Colonos ritrae con l’epica western l’altra faccia che l’immaginario cinematografico nascondeva nell’avanzata civilizzatrice dell'”uomo bianco”. Siamo di fronte a un western classico con tocchi modernisti, vicino ai famosi “anti-western” che pullulavano negli anni ’60 e ’70 e che registi come Kelly Reichardt (Meek’s Cutoff- Il sentiero di Meek ) o lo stesso Lisandro Alonso hanno recentemente recuperato in Jauja: sostanzialmente, l’opera prima del cileno Felipe Gálvez scommette su un viaggio classico del cinema western, solo raccontato da un’altra prospettiva, luogo e circostanza.

Los Colonos conduce la sua missione western attraverso una serie di forti scene di violenza nelle fasi successive, che si allontano dal senso di leggerezza per inserire i personaggi in zone sempre più cupe. Con il passare del tempo,  questi dovranno anche confrontarsi tra loro, poiché le loro differenze iniziano a diventare sempre più evidenti, e si troveranno di fronte a un altro tipo di ferocia, quella degli affari “interni”.

Los Colonos (2023)
Fonte: The Movie Database

Colonos come Conquistadores

Il regista Felipe Gálvez intreccia personaggi reali e di finzione, al suo debutto alla regia dopo quindici anni di lavoro come montatore, in questo pluripremiato western patagonico sul genocidio dei Selknam come fondamento della civiltà cilena, quasi fosse una risposta sudamericana al recente Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese.

Quello che Gálvez realizza è una durissima critica allo sterminio dei popoli nativi, sugli abusi del capitalismo e sull’enorme controllo della terra detenuto da pochi gruppi e famiglie, senza parlare troppo direttamente di questi temi. Nel modo in cui Menéndez si comporta, nel modo in cui i militari, gli ufficiali e gli esploratori avanzano su tutto e tutti come se fossero proprietari di ogni centimetro che calpestano e delimitano, Los Colonos racconta la storia crudele delle origini di un Paese (o due, forse) segnato dalla violenza fisica, politica ed economica.

In Los Colonos, la violenza e il dolore sono sussurrati

Gálvez ha il senso, l’eleganza e l’intelligenza di suggerire più di quanto mostri: è chiaro che avvengono atrocità di ogni tipo, ma sono intuite, viste in lontananza, comprese attraverso certi dialoghi (sempre in nome del “progresso”). Gli esterni della natura incontaminata del sud del Cile e dell’Argentina sono talmente mozzafiato che non c’è modo per Gálvez e il suo direttore della fotografia Simone D’Arcangelo di evitare di indulgere in certi preziosismi, ma l’esperienza sensoriale – un lavoro sonoro straordinario e le musiche di Harry Allouche – è coinvolgente e impressionante.

Attraversando i paesaggi della Terra del Fuoco, Felipe Gálvez attraversa anche buona parte della biografia del genere: dalla laconica crudeltà del western di serie B alla sua revisione europea, passando per la violenza senza alibi di Nessuna pietà per Ulzana e gli scenari astratti di Jauja. In questo road movie a cavallo, con protagonisti due malviventi e un testimone silenzioso, un meticcio complice della follia del loro viaggio, tutti questi riferimenti permeano, senza farsi notare, le sue immagini in modo tanto energico quanto inquietante. C’è decisamente qualcosa di horror in questo film, come se fosse una versione politica di Bone Tomahawk di S. Craig Zahler con la poetica ruvida e tagliente di Cormac McCarthy.

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